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Nato nel 1960 a Pavia, vivo a Roma. Docente di Lettere nei licei, poi pure di Religione cattolica, quando ho vinto una cattedra nella scuola statale ho preferito rinunciare, per proseguire e arricchire l’esperienza di far crescere un nuovo modello scolastico, sostenuto dalle famiglie degli alunni e incentrato sull’impegno educativo comune famiglia – scuola. Con i colleghi, ho riscoperto l’importanza di leggere in classe e di aiutare gli alunni a prendere contatto diretto con i testi classici, che – come Calvino ha insegnato – “ci leggono”: vedi alle voci Virgilio, Dante, Tolkien,... Da una ventina di anni accompagno le prime medie nell’avventura di leggere integralmente l’Eneide; e mi sono appassionato a scovarvi trame narrative robuste e delicate, da riscoprire e rivalutare. Amo il contatto con la natura, le attività agricole e l’apicoltura. Vivendo a Roma da più di trent’anni, mi sono accorto che l’epigrafia può essere un incentivo per gli alunni ad interessarsi al latino, al greco… semplicemente imparando a guardarsi intorno con curiosità. Così sono nati i laboratori epigrafici che hanno il semplice pregio di aver divertito docenti e discenti.

sabato 26 novembre 2011

Pensierino 4) LE PARTI DEL DISCORSO: QUALCHE RISPOSTA



Il Pensierino n. 3 si era concluso con le seguenti domande:
-                            che cosa significa che una stessa parola possa “essere” cinque parti diverse del discorso?
-                            Quali sono i criteri definitori chiari per catalogare le varie parti? (…)
-                            Più a fondo ancora: che cosa sono le suddette parti del discorso? Ovvero, che operazione mentale sto facendo quando catalogo o faccio catalogare dagli alunni le parole in “parti del discorso”?
Non pretendo ovviamente di rispondere in modo esauriente a questa serie di domande, che pare abbastanza innocua ma richiede probabilmente approfondimenti lunghi e “filosofici”. Posso dire che un esame di alcune grammatiche recenti[1] mi ha fatto capire che non è facile – come succede in ogni scienza – proprio dare definizioni chiare di base. Qualcuno vi rinuncia a priori (sembra incredibile, ma le più di 300 pagine dedicate da Renzi al verbo non definiscono mai che cosa esso sia!).
Mi limiterò, in questa sede, a riflettere un po’ su certi dati storici, per poi cercare di arrivare a qualche conclusione almeno provvisoria.
Proviamo a tornare alle origini: a volte questo aiuta a chiarire i processi mentali che hanno portato alle categorie attuali. Nell’antichità, il primo greco, Dionisio Trace (II a.C.) che catalogò le “parti del discorso” di una lingua simile alla nostra, il greco appunto, le vedeva in modo un po’ diverso: elencava 8 parti in quest’ordine: nome, verbo, participio, articolo, pronome, preposizione, avverbio, congiunzione. Le prime cinque variabili, le ultime tre invariabili.
Come si noterà (cfr. lo schema “attuale” riportano nel Pensierino 3), a parte la mancanza dell’interiezione o esclamazione, c’è un clamoroso assente, l’aggettivo, mentre c’è “in più” il participio.
Si evidenzia che una grande bipartizione iniziale è quella NOME – VERBO, con il “PARTICIPIO” che come dice il nome partecipa del nome e del verbo, è un qualcosa di “comune” tra questi due insiemi. Ci si accorge, proseguendo nello studio storico, che all’interno della categoria NOME i latini erano arrivati a distinguere il nomen substantivum, che significa una “sostanza”, un qualcosa di esistente in sé – quello che noi diremmo una “cosa”, una “realtà” – dal nomen adiectivum che si “aggiunge” al primo, precisandone una qualità o una circostanza. Forse, come me fino a poco fa, non tutti sanno che tale catalogazione comune di sostantivo e aggettivo nelle grammatiche è stata mantenuta sino a dopo l’Unità d’Italia: tanto che solo a partire dal Fornaciari (prima edizione 1879-1881) l’aggettivo venne considerato dotato di statuto autonomo!
Non ritengo che dobbiamo considerare del tutto “ciechi” gli antichi. Come la mettiamo? Che cosa vedevano o che cosa noi rischiamo di non vedere più? A mio avviso, si tratta di notare che la funzione del nome è di fatto in parte condivisa da nomi, aggettivi e  pronomi. Il Serianni[2] se ne accorge, eccome, tanto da dedicare una sezione del capitolo quinto al confronto tra le due parti che stiamo considerando: L’aggettivo e il nome. (“La grande affinità di forme e di impieghi esistente tra aggettivo e nome fa sì che le due categorie spesso assumano l’una le funzioni dell’altra.” La sezione comprende ben 13 punti, da V.43 a V.55, con una ricca esemplificazione).
E più semplicemente: i colori e i numeri, non svolgono forse in modo equivalente le funzioni di nomi o di aggettivi? Proprio perché indicano una “qualità” o una “quantità” (Aristotele avrebbe detto un accidente), queste parole vengono usate sia da sole (substantivum), sia in compagnia di altri nomi (adiectivum).
Es: Il verde del prato si stagliava sull’azzurro del cielo. Il prato verde si stagliava sul cielo azzurro.
Due più due fa quattro. Due euro più due euro fa quattro euro.
Quanto ai pronomi: i pronomi personali che cosa sono se non “nomi personali relativi a chi parla”? Mi è recentemente capitato di sentire analizzare un pronome personale come “nome” da un alunno di V elementare: e pensavo che non è del tutto sbagliato!
Potremmo riflettere ancora più a fondo – come fa Serianni in V.7-8 e osservare che la distinzione nome – verbo, che sembra così netta nelle lingue indoeuropee e in particolare in greco e in italiano, NON lo è in tutte le lingue: “Non potremmo fare lo stesso con le lingue sino-tibetane o con molti idiomi amerindiani,…”. Possiamo anche aggiungere che in lingue meno flessive, come l’inglese, molte parole possono essere usate sia come nomi, sia come verbi!!! (the stop – to stop; the light – to light eccetera).
Ma allora tutto è confuso? No, questa sarebbe una conclusione errata, dato che nella pratica non ci è affatto difficile distinguere nomi, aggettivi, pronomi, verbi… neppure in inglese, dove più spesso che in italiano la parola è la stessa, impiegata in funzioni diverse.
Allora, per provare a tirare qualche somma dalle considerazioni svolte qui e nel precedente Pensierino, senza arrischiarci ancora a coniare definizioni:
-                            le “parti del discorso” vanno intese forse come funzioni prevalenti di una certa parola (in astratto, p.es. nel vocabolario), e comunque, come la funzione svolta in quella determinata frase. Questo chiarimento è fondamentale e apre lo studente a considerare la lingua in modo molto più attivo. In questa frase che ho sotto gli occhi devo veramente andare a cercare quale funzione svolgono le parole… ed è una caccia al tesoro appassionante! Posso trovare in funzione di nome parole che hanno funzione prevalente di aggettivi (Il bello è proprio questo), o di avverbi (Oggi è una bella giornata), o di verbi (Correre mi piace tanto);
-                            non ci meravigliamo più che molte parole abbiano varie funzioni (cfr. la parola “vicino”, che – con lo stesso contenuto semantico – può svolgere cinque funzioni diverse); anzi, un segno della “intelligenza” dei parlanti è proprio questo “piegare” la lingua alle esigenze che si presentano di volta in volta, “spostando” le parole da una funzione all’altra;
-                            in particolare, nel verbo noteremo che non solo il participio (come già vedevano gli antichi) è predisposto a svolgere una funzione nominale, ma che anche l’infinito è come il “nome del verbo” (mi si scusi il pasticcio). ‘Correre’ è la parola con cui “nomino” quell’azione;  
-                            possiamo anche notare che tutte le parole sono almeno usate come nome “di se stesse”, proprio quando parlo di grammatica. E allora non dirò più che “tutte le categorie grammaticali possono fungere da soggetto di una proposizione”, con esemplificazioni del tipo:
o       il è un articolo determinativo;
o       domani è un avverbio di tempo.
Mi accorgerò invece che in questi due casi il e domani sono nomi: sono “la parola con cui nomino” rispettivamente l’articolo determinativo e un avverbio. E potrò forse concludere che un soggetto è sempre un sintagma nominale.


[1] Serianni, Grammatica italiana, DeAgostini ed. 2006; Renzi-Salvi-Cardinaletti, Grande grammatica italiana di consultazione, Il Mulino ed. 2001; Dardano-Trifone, La nuova grammatica della lingua italiana, Zanichelli 1997; Fornara, Grammatiche e storia della grammatica. Analisi di testi esemplari – Schemi e tabelle, appunti del corso di Grammatica B, a.a. 2005/2006.
[2] Op.cit.

mercoledì 16 novembre 2011

Pensierino 3) QUALI PARTI DEL DISCORSO?


Sembra abbastanza logico e accettato – almeno sui libri di scuola e nella comune opinione dei parlanti, che nella nostra società sono tutti bene o male anche scriventi – che la lingua si possa dividere in “frasi” o “periodi”, quei testi dopo i quali segniamo un punto fermo, un punto e virgola o comunque un segno di interruzione del discorso.
E’ pure evidente che, all’interno dei periodi, siamo abituati a dividere il testo in parole. Non è sempre facilissimo, ma grosso modo siamo d’accordo nell’individuare in questo elemento primario l’unità minima da noi impiegata nella costruzione di testi. Le parole esistono, le usiamo continuamente, per nostra fortuna gli antenati hanno inventato un metodo di scrittura “alfabetico”, di tipo analitico e a corrispondenza quasi perfettamente biunivoca con la lingua parlata (almeno in italiano). Tutto ciò ci consente di oggettivare la lingua e poterla più facilmente studiare, e ci rassicura sulla validità della “parola” come primo ingrediente di qualunque frase. Questo passaggio meriterebbe ulteriori osservazioni e riflessioni, perché non è affatto scontato poter godere dei vantaggi di un sistema alfabetico. Ma per ora passiamo oltre, per entrare nell’osservazione che apriamo oggi: quella dei “tipi di parole”.
Tradizionalmente, le parole sono state catalogate in un certo numero di “tipi”, chiamati “le parti del discorso” (orationis partes). E probabilmente a tutti noi sembra scontato elencarle come abbiamo appreso fin da piccoli:
Parti variabili
1.      nome
2.      articolo
3.      verbo
4.      aggettivo
5.      pronome
Parti invariabili
6.      avverbio
7.      preposizione
8.      congiunzione
9.      interiezione o esclamazione
Questa parte della grammatica pare semplice e indiscutibile. Di solito viene presentata dicendo che in “analisi grammaticale” si tratta di dire “che tipo di parola è” quella analizzata, e osserviamo subito che il rischio è di immaginare l’insieme della lingua come un meccanismo perfettamente logico e schematico, dunque chiuso e inflessibile. Ogni parola è di un tipo e di un solo tipo, e va esaminata a sé.
Basta però gettare un’occhiata a un dizionario italiano per accorgersi che non poche parole sono catalogate in modo molteplice proprio dal punto di vista delle parti del discorso.
Prendiamo ad esempio la parola “vicino”: di che tipo è? Dipende dal testo in cui la troviamo. Vediamone alcuni possibili:
-                    Giovanni, il mio vicino di casa, è rientrato dalle vacanze. “Il vicino” è chiaramente un nome, come ricavo dalla presenza dell’articolo e dal fatto che indico una persona che ha una certa caratteristica ben definita (il significato è preciso: “colui che abita in una casa vicina alla mia”).
-                    Il bar più vicino si chiama “da Gigi”. “Il più vicino”, al grado superlativo relativo, non può che essere un aggettivo qualificativo
-                    Mi rivolgo ai vicini e ai lontani. “I vicini” è forse da intendere come un pronome? Significa infatti “coloro che sono vicini (resta da chiarire a chi o a quale posizione o atteggiamento)” e non ha il senso del nome trovato nel primo esempio (“colui che mi abita vicino”).
-                    Tu abiti lontano o vicino? Qui si risponde direttamente a una domanda “dove?”: ci troviamo in presenza di un avverbio.
-                    Vicino a casa tua (se sono siciliano dirò: Vicino casa tua…) c’è un parco molto verde. Un alunno diligente direbbe che qui dobbiamo considerare “vicino a” come una locuzione preposizionale o prepositiva; insomma, un gruppetto di parole che equivale a una preposizione, cioè introduce un complemento (o un sintagma, se vogliamo usare un’altra terminologia).
Già da un esempio così semplice ci rendiamo conto che:
-         una stessa parola può essere impiegata come una “parte” diversa di volta in volta;
-         non sempre rispettiamo uno dei principi che sembrano basilari in “analisi grammaticale”: quello di esaminare le parole ad una ad una. Nell’ultimo esempio, ci siamo sentiti costretti a prendere in esame “vicino a”;
-         è molto più difficile catalogare il tipo di parola che usarla (per fortuna!);
-         i diversi impieghi della stessa parola “vicino” sono fondati su un significato che rimane comune, e che ha consentito questo “slittamento spontaneo” da un uso all’altro.
Un secondo esempio su cui possiamo riflettere è quello della parola “senza”. I dizionari la catalogano come congiunzione. E portano adeguati esempi:
-         Mi incontrò senza salutarmi. Introduce una frase, dunque è una congiunzione.
Già. Ma se penso all’antitesi spesso impiegata “con o senza?” (lessicalmente ancor più evidente in inglese: “with or without?”) mi accorgo di una “opposizione perfetta” tra le due parole, che proprio per questo dovrebbero appartenere ad una stessa categoria. Orbene, tutti sanno che “con” appartiene all’elenco delle preposizioni semplici (di-a-da-in-con-su-per-tra/fra). E allora come la mettiamo? Perché “senza” è… “fuori catalogo”?
Ci fermiamo a questi primi esempi, per non appesantire troppo questa prima riflessione. Alcune domande s’impongono: che cosa significa che una stessa parola possa “essere” cinque parti diverse del discorso? Quali sono i criteri definitori chiari per catalogare le varie parti? E siamo sicuri che queste nove parti comprendano tutte le parole e tutti gli usi delle parole? Più a fondo ancora: che cosa sono le suddette parti del discorso? Ovvero, che operazione mentale sto facendo quando catalogo o faccio catalogare dagli alunni le parole in “parti del discorso”?
Se ci sembrasse di cominciare a notare un po’ di nebulosità, proprio nell’analisi grammaticale, che sembra la più “chiara e distinta”, non occorre stracciarsi le vesti: definire bene i criteri di ricerca ci potrà servire per accorgerci che il mondo delle nostre parole è più ricco e variegato di quanto ci siamo finora accorti. Il che lo rende ancor più entusiasmante da esplorare e ci dischiude promettenti orizzonti di avventura…

domenica 13 novembre 2011

Pensierino 2) PREMESSA: A CHE SERVE RIFLETTERE SULLA LINGUA?


Domanda terribile… soprattutto per un docente.
Non che sia difficile trovare qualche risposta da rifilare agli alunni che pongono questa domanda, o si lamentano che “tanto la grammatica non serve a niente”; elenco alcuni dei nostri stereotipi: “è un esercizio formativo” (vero, ma possiamo essere un po’ più precisi?); “ti serve per scrivere meglio” (vero, ma solo parzialmente e indirettamente); “ti rende più padrone della tua lingua” (possibile, ma vago); “ti forma alla logica” (magari!, se fosse davvero logica la nostra proposta, che spesso è caotica – e lo vedremo…).
Il punto che rende terribile la domanda “a che serve?” è il seguente: onestamente, abbiamo capito e siamo convinti personalmente che la nostra riflessione sulla lingua è vera e porta a verità? E a quale tipo di verità? Di conseguenza, sappiamo spiegare in che modo è formativo tale lavoro intellettuale che esercitiamo per anni e anni, in pratica per tutto l’arco della vita scolastica dalla II primaria all’ultimo anno di scuola secondaria?
L’ho detto e non lo ritiro: verità. Scandaloso? Forse, ma necessario. Non si scappa: o le cose che insegniamo sono vere, o sono false. Nel secondo caso, facciamo meglio a tacere e cambiare lavoro. E a questo punto ci rendiamo conto che pure la coltivazione del nostro orticello grammaticale richiede una prospettiva, una visione del mondo valida. Che forse non emerge nei nostri libri.
A mio avviso, il primo lavoro che il docente deve svolgere è quello di chiedersi: ma le categorie della grammatica esistono davvero? Non in blocco, ma prendendole in esame ad una ad una, nel concreto.
Un’esperienza didattica folgorante, vissuta da vicino, mi sembra paradigmatica e ispiratrice, ve la propongo anche se pare una divagazione: qualche anno fa, due colleghi (di Scienze e di Tecnologia) avviarono in una seconda media un laboratorio di Birdwatching, con l’obiettivo che gli alunni imparassero a riconoscere la fauna avicola presente nel giardino della scuola, arrivando a costruire nidi adatti a favorire lo stanziamento delle diverse specie di uccelli presenti. Si sarebbe potuto cominciare dallo studio della sistematica zoologica… ma ecco il colpo di genio: i colleghi portano la classe in giardino (zona orto botanico, gradita agli alunni sia per il precedente lavoro di allestimento dell’orto, sia perché zona di intervallo) e li “impegnano”… in due ore di silenzio assoluto, “per vedere se nel nostro orto vengono volatili: quanti, quali, o forse nessuno? Ne va di mezzo tutto il progetto”. E il miracolo avviene: non solo gli uccellini ci sono, ma gli alunni “impazziscono” (almeno in percentuale significativa) per cercare di capire le diverse specie… e cominciano a studiare libri su libri, a cercare su Internet schemi zoologici, pian piano a coltivare la fotografia, per poter “fissare” e quindi studiare le diverse specie. Risultato finale: un progetto ben sviluppato e concluso, ma soprattutto a fine anno una classe quasi tutta attentissima a osservare la presenza degli animali in città… con esiti sorprendenti anche durante le uscite didattiche per i più svariati motivi, tutte caratterizzate dalla presenza del Birdwatching come “costante”: quel che si dice “hanno sviluppato una competenza (o varie competenze)”. Vedere per credere: http://www.giacomodefranchis.com/
Che c’entra questa esperienza con lo studio della grammatica inteso come riflessione sulla lingua? Forse molto, forse tutto. Perché non facciamo qualcosa di simile? Perché non rigiriamo la frittata di 180°, partendo dall’osservare davvero la realtà (la lingua, che tutti noi parliamo bene o male…) invece di mettere il carro davanti ai buoi? Perché – invece di aprire il libro alla pagina… e leggere la spiegazione di come noi parliamo, non proviamo a osservare come noi parliamo, cercando di catalogare tutto questo mondo, complesso e variegato più della fauna avicola del nostro giardino, e forse almeno altrettanto appassionante? Un lavoraccio? Beh, quale vero studio non lo è? Ma che professionisti siamo se non lo affrontiamo con questa freschezza, con questo entusiasmo e con questa libertà?
Per oggi mi limito alle domande. Prossimamente entreremo nella ricerca vera e propria.

sabato 5 novembre 2011

Pensierino 1) LA MERAVIGLIA DEL LINGUAGGIO

Che io parli, che si possa interloquire con altri, che ci si capisca è una specie di meraviglia che dovrebbe provocare molte domande, molti interrogativi in ogni parlante.
A cominciare da una stupefacente ambivalenza della lingua: essa, da un certo punto di vista, appare come un “meccanismo” rigoroso  e preciso, tanto che chiunque, di fronte a un errore linguistico, si sente istintivamente spinto all’immediata correzione (“non si dice così!”), se non alla derisione di chi “sbaglia” o alla commiserazione dello “straniero”, che – poveretto! – non riesce a parlar bene. Occorre notare che questa serie di atteggiamenti rimane ancora perfettamente in vigore in una società, come la nostra, in cui le “regole” sono tranquillamente e abbondantemente misconosciute, se non del tutto “saltate”.
Da un altro punto di vista, la lingua è giustamente percepita come un qualcosa di totalmente mio, sono sempre io che parlo, e questa mia personalità libera, di cui nell’età della crescita divento sempre più consapevole, la voglio esplicitare via via anche nei miei atti linguistici, come nel mio modo di camminare o di vestire o di colorare lo zaino scolastico o il diario. Dunque, la lingua come massima espressione della creatività personale, confermata pure dall’istituzione scolastica: tanto è vero che proprio a scuola si studia un’infinita serie di “autori”, valorizzati ed elogiati proprio per aver detto qualcosa di nuovo, di originale, di caratteristico…
Che cosa c’è sotto? Come mai ci comportiamo istintivamente in questi due modi? Come affrontare una riflessione su questo fenomeno “clamoroso”? Una risposta esauriente sarebbe lunghissima, in quanto il “fenomeno” lingua implica la partecipazione di innumerevoli elementi, che si possono analizzare quasi all’infinito. Di fronte alla confusione, in parte dovuta alla proliferazione delle scuole di analisi linguistica, e di fronte al crescente disinteresse per lo studio della propria lingua, sembra importante provare a osservare in modo semplice e accessibile alcuni aspetti meravigliosi del parlare, così da non perderli di vista per eccesso di analisi. E – si spera – per ritrovare il gusto di riflettere sulla lingua.

Alcuni dei prossimi “Pensierini”:
Esistono le “parti del discorso”?
Quando è nato l’aggettivo?
Che cos’è propriamente l’analisi logica?
Che cos’è il soggetto?
Che cos’è il predicato nominale e in che cosa si differenzia dai complementi predicativi del soggetto?
Quali complementi esistono davvero?
Che cos’è il complemento di specificazione?
Come raggruppare i complementi in modo sensato?
Le figure retoriche: come mai?
Un ritmo degli slogan: la metrica.