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Nato nel 1960 a Pavia, vivo a Roma. Docente di Lettere nei licei, poi pure di Religione cattolica, quando ho vinto una cattedra nella scuola statale ho preferito rinunciare, per proseguire e arricchire l’esperienza di far crescere un nuovo modello scolastico, sostenuto dalle famiglie degli alunni e incentrato sull’impegno educativo comune famiglia – scuola. Con i colleghi, ho riscoperto l’importanza di leggere in classe e di aiutare gli alunni a prendere contatto diretto con i testi classici, che – come Calvino ha insegnato – “ci leggono”: vedi alle voci Virgilio, Dante, Tolkien,... Da una ventina di anni accompagno le prime medie nell’avventura di leggere integralmente l’Eneide; e mi sono appassionato a scovarvi trame narrative robuste e delicate, da riscoprire e rivalutare. Amo il contatto con la natura, le attività agricole e l’apicoltura. Vivendo a Roma da più di trent’anni, mi sono accorto che l’epigrafia può essere un incentivo per gli alunni ad interessarsi al latino, al greco… semplicemente imparando a guardarsi intorno con curiosità. Così sono nati i laboratori epigrafici che hanno il semplice pregio di aver divertito docenti e discenti.

giovedì 27 dicembre 2012

ENEA, PRIAMO E LA PIETAS (Eneide, II, 506-558)


Il destino finale di Priamo
Parte centrale dalla Tabula Iliaca Capitolina, rinvenuta presso Bovillae nel 1683, ora nei Musei Capitolini,
con scene della guerra di Troia (foto e disegno relativo)

Forsitan et Priami fuerint quae fata requiras. 
Urbis uti captae casum convulsaque vidit
limina tectorum et medium in penetralibus hostem,
arma diu senior desueta trementibus aevo
circumdat nequiquam umeris et inutile ferrum
cingitur, ac densos fertur moriturus in hostis.
Aedibus in mediis nudoque sub aetheris axe
ingens ara fuit iuxtaque veterrima laurus 
incumbens arae atque umbra complexa penatis.
Hic Hecuba et natae nequiquam altaria circum,
praecipites atra ceu tempestate columbae,
condensae et divum amplexae simulacra sedebant.
Ipsum autem sumptis Priamum iuvenalibus armis
ut vidit, 'quae mens tam dira, miserrime coniunx,
impulit his cingi telis? aut quo ruis?' inquit.
'Non tali auxilio nec defensoribus istis
tempus eget; non, si ipse meus nunc adforet Hector.
Huc tandem concede; haec ara tuebitur omnis,
aut moriere simul.' Sic ore effata recepit
ad sese et sacra longaevum in sede locavit.  
Ecce autem elapsus Pyrrhi de caede Polites,
unus natorum Priami, per tela, per hostis
porticibus longis fugit et vacua atria lustrat
saucius. Illum ardens infesto vulnere Pyrrhus
insequitur, iam iamque manu tenet et premit hasta.
Ut tandem ante oculos evasit et ora parentum,
 concidit ac multo vitam cum sanguine fudit.
Hic Priamus, quamquam in media iam morte tenetur,
non tamen abstinuit nec voci iraeque pepercit:
'At tibi pro scelere,' exclamat, 'pro talibus ausis
di, si qua est caelo pietas quae talia curet,
persolvant grates dignas et praemia reddant
debita, qui nati coram me cernere letum
fecisti et patrios foedasti funere vultus.
At non ille, satum quo te mentiris, Achilles
talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque
supplicis erubuit corpusque exsangue sepulcro
reddidit Hectoreum meque in mea regna remisit.'
Sic fatus senior telumque imbelle sine ictu
coniecit, rauco quod protinus aere repulsum,
et summo clipei nequiquam umbone pependit.
Cui Pyrrhus: 'Referes ergo haec et nuntius ibis
Pelidae genitori. Illi mea tristia facta 
degeneremque Neoptolemum narrare memento.
Nunc morere.' Hoc dicens altaria ad ipsa trementem
traxit et in multo lapsantem sanguine nati,
implicuitque comam laeva, dextraque coruscum
extulit ac lateri capulo tenus abdidit ensem.
Haec finis Priami fatorum, hic exitus illum
sorte tulit Troiam incensam et prolapsa videntem
Pergama, tot quondam populis terrisque superbum
regnatorem Asiae. Iacet ingens litore truncus,
avulsumque umeris caput et sine nomine corpus.
Forse chiederai quali furono i destini di Priamo.
Come vide la situazione della città occupata e travolte
le soglie delle case ed il nemico in mezzo ai penetrali,
l’anziano mette invano attorno alle spalle tremanti per l’età
le armi a lungo disusate e si cinge l’inutile spada
e si getta a morire tra i folti nemici.
In mezzo al palazzo c’era un enorme altare sotto il nudo asse
del cielo e vicino un antichissimo alloro
sovrastante l’altare, e abbracciava con l’ombra i penati.
Qui Ecuba e le figlie invano attorno agli altari,
rapide come colombe per nera tempesta,
sedevano strette, abbracciando le statue degli dei.
Ma come vide lui, Priamo, vestito delle giovanili armi,
“Quale idea così pazza, miserrimo marito,
ti spinse a cingerti di queste armi? o dove accorri?” disse.
“Non di tale aiuto né di simili difensori il momento                      
ha bisogno; neppure, se ci fosse adesso lo stesso mio Ettore.
Ritirati qui finalmente; questo altare difenderà tutti,
o morirai insieme”. Così espressasi a voce lo accolse
a sè e collocò l’anziano sul sacro seggio.
Ma ecco sfuggito dalla strage di Pirro Polite,
uno dei figli di Priamo, tra proiettili, tra nemici
fugge per i lunghi porticati e gira i vuoti atri,
ferito. Ardente, con spada ostile, Pirro lo
insegue, ormai già lo tiene, lo stringe con l’asta.
Quando infine giunse davanti agli occhi e ai volti dei   genitori,
cadde e versò la vita con molto sangue.
Qui Priamo, sebbene ormai preso in mezzo dalla morte,
tuttavia non si trattenne dalla parola né risparmiò l’ira:
“A te però – esclama – per il delitto e per tali imprese
gli dei, se c’è per il cielo pietà che curi tali cose
ripaghino degne ricompense e restituiscano premi
adeguati, a te che facesti vedere sotto gli occhi la morte
del figlio e macchiasti con la morte il volto paterno.

Certo quell’Achille, da cui menti d’esser nato, non
fu tale verso il nemico Priamo; ma rispettò i diritti
e la lealtà del supplice e concesse per il sepolcro il corpo
esangue di Ettore
e mi rimandò nei mei regni.”
Così parlò l’anziano e senza spinta lanciò l’asta
inerte, che subito fu respinta dal bronzo roco
e invano penzolò dalla sommità dell’umbone dello scudo.
Ed a lui Pirro: “Riferirai dunque queste cose ed andrai messaggero
al padre Pelide. Ricordati di raccontargli le tristi                    
mie imprese e quanto è degenerato Neottolemo.
Adesso muori!” Dicendo questo, trascinò lui vicino agli altari
mentre tremava e scivolava nel molto sangue del figlio;
afferrò la chioma con la sinistra e con la destra alzò la spada
scintillante e la conficcò nel fianco fino all’elsa.
Questa la fine dei destini di Priamo, questa morte fatale
lo portò via, mentre vedeva Troia incendiata e crollata
Pergamo, lui un tempo re superbo su tanti                    
popoli e regni dell’Asia. Giace sul lido un grande tronco,
un capo staccato dalle spalle ed un corpo senza nome.

Leggendo il I libro dell’Eneide avevamo già notato il pianto di Enea, che si commuove dinanzi alla raffigurazione di Priamo, da lui contemplata nelle pitture del tempio di Giunone in costruzione a Cartagine. Ma è nel II libro che – per così dire – Enea apre il cuore ai presenti al banchetto nella reggia cartaginese, tramite il racconto delle ultime ore della sua città ormai perduta per sempre. L’eroe ci ha avvisati, all’inizio della narrazione, che si tratta per lui di un indicibile dolore (infandum, regina, iubes renovare dolorem), ma ha acceduto alla richiesta di Didone e ora davanti ai nostri occhi si dispiega la vicenda che ha portato un’immane sofferenza nella vita interiore di quest’uomo che racconta.
Non intendiamo qui ripercorrere tutte le vicende relative alla fine di Troia, la cui narrazione occupa l’intero secondo libro; possiamo però notare che esse hanno un punto centrale, verso cui converge Enea nonostante tutte le richieste esterne siano di segno contrario: il centro è la reggia, con il re Priamo, suo suocero; il punto nevralgico, il ridotto ultimo, il cuore della città.
Le richieste divine – giunte a Enea dal sogno di Ettore, dall’incontro con il sacerdote Panto e più avanti ribadite dall’apparizione della madre Venere – sono di fuggire, di andarsene, di salvare i Penati e abbandonare ciò che gli dèi hanno ormai abbandonato. Nella sua caparbietà Enea invece vuole difendere la città, la reggia, il re e la sua famiglia, e giunge a vedere con i propri occhi il disastro: la scena che ora osserviamo pure noi.
La reggia non ha resistito: l’assalto finale dei Greci, capitanati da un furioso Pirro Neottòlemo, figlio di Achille, ha avuto successo; l’ariete ha sfondato il portone, i nemici hanno fatto irruzione e la strage è inevitabile, nonostante le urla di supplica e di preghiera delle donne. Enea – e noi con lui – si trova in un punto di osservazione riparato: un piano superiore o comunque un luogo dal quale, protetto, osserva la scena che avviene nel cuore del cuore della città: il luogo sacro della reggia, l’altare di Giove nel cortile interno, circondato dal grande porticato.
Virgilio “segna” narrativamente il passaggio ad un nuovo argomento con il primo verso qui riportato, in cui si rivolge alla regina Didone: Forsitan et Priami fuerint quae fata requiras. Ed è evidente che tutto il brano ha una sua compattezza e rifinitura di gran pregio. La chiusa, introdotta da una vera e propria, lunga “didascalia finale” (Haec finis Priami fatorum…) è uno dei punti di maggior pathos del poema: un’immagine folgorante, macabra e terribile che non si scorda più: Iacet ingens litore truncus, / avulsumque umeris caput et sine nomine corpus.
Dunque, che cosa racchiude questo intimo, drammatico scrigno del cuore di Enea? Che cosa ha visto l’eroe grazie alla sua testardaggine a tentare l’impossibile per difendere l’indifendibile? Egli ha assistito – e ne è l’unico testimone vivente – alla fine di Priamo, all’atto finale, che non è stato solo un drammatico momento conclusivo della guerra, ma un supremo appello alla pietas. Talvolta si ritiene difficile tradurre questo termine, o precisarne in modo chiaro il contenuto; ma qui è Priamo stesso a concentrare l’attenzione su questa precisa parola, reclamando esplicitamente la pietas degli dèi, invocandoli a riequilibrare la grave empietà di Pirro Neottòlemo, qui nati coram me cernere letum / fecisti et patrios foedasti funere vultus. Pirro ha ucciso l’ultimo figlio di Priamo coram (con un potente uso assoluto, avverbiale della preposizione, dato che me funge da soggetto di cernere), sotto i suoi occhi, lo ha costretto a questa che è la sofferenza più forte e drammatica di un uomo su questa terra: assistere impotente alla morte del proprio figlio.
         Non era il primo figlio che Priamo vedeva morire sotto i propri occhi: basta ricordare la presenza, nelle pitture che Enea vede a Cartagine di cui parla il I libro dell’Eneide, dello scempio del corpo di Troilo, infelix puer,  o più semplicemente la morte di Ettore. Priamo, con 50 figli e 9 anni di guerra alle spalle, era dunque esperto in questo specifico, dilaniante dolore paterno. Ma proprio per questo è lui, il re Priamo, ad aver titolo per innalzare un grido quasi sovrumano, per chiedere giustizia agli dèi, per tentare in extremis di cambiare il cuore crudele di Pirro Neottòlemo, per protestare contro questa specifica empietà, e ricordare un esempio positivo – pur nella durezza della guerra. Il grande Achille, padre di Pirro Neottòlemo, non è stato insensibile alle suppliche del re Priamo, che baciandogli la mano implorava la restituzione del corpo del figlio Ettore, per dargli degna sepoltura.
         E invece il dramma si compie fino in fondo, la domanda al cielo rimane per ora senza risposta: Pirro non si commuove minimamente e non solo uccide crudelmente Priamo, ma ne tronca il capo e ne abbandona brutalmente il corpo sul lido della città conquistata. Il grido – sotto forma di dubbio – di Priamo si qua est caelo pietas quae talia curet rimane per ora in sospeso e pertanto in massima evidenza.
         Abbiamo capito un po’ meglio che cosa c’è nel cuore sanguinante del nostro Enea, un eroe che stiamo scoprendo così moderno: quale domanda è sepolta nel fondo dell’anima e lo fa tanto soffrire. Riusciamo ora pure a capire meglio il pianto di Enea che tanto ci aveva colpito nel I libro: egli porta in sé un abisso di dolore e un grave quesito irrisolto. Allo stesso tempo, capiamo ancor meglio la grande speranza di cui Enea è depositario: la speranza che vi sia risposta positiva all’interrogativo di Priamo – e la relativa commozione nel trovare, qua e là per il mondo, raffigurazioni artistiche che fanno intuire la stessa sensibilità, la stessa domanda aperta, la stessa speranza. Quale altro senso può avere – sembra dirci Enea – la raffigurazione pittorica delle vicende di Priamo, se non la perpetuazione di tale domanda? Ricordiamo che la sorprendente considerazione sgorgata dal pianto di Enea nel libro I era stata, rivolto al fido scudiero Acate: Sunt lacrimae rerum… ci si sa commuovere per le disgrazie – et mentem mortalia tangunt, e le vicende umane toccano il cuore; Solve metus – non aver paura!
         A chiusura di queste considerazioni, due parole sul frammento di bassorilievo posto in apertura di pagina: si tratta di una parte della Tabula Iliaca Capitolina, presente nei Musei Capitolini (ovviamente, a Roma). Veramente impressionante la centralità, nella raffigurazione della Tabula, della stessa scena che abbiamo considerato in queste righe. Non è il momento di esaminare nel suo insieme questa tavoletta votiva quasi coeva alla redazione dell’Eneide e probabilmente ancora poco valorizzata. Ma di certo è molto utile osservarla, soprattutto nella sapiente “trascrizione” grafica che evidenzia bene i particolari, e notare la grande coincidenza di narrazione e di “peso” assegnato a diversi aspetti: l’incombere violento di Pirro Neottòlemo, lo strazio della morte di Polite, i lunghi porticati che inquadrano la scena, l’empietà nell’uccisione di Priamo e di Ecuba sugli altari… nonché la posizione centrale della scena stessa nella Tabula, che si può osservare qui sotto.


domenica 18 novembre 2012

PERCHE’ ENEA PIANGE? (Eneide, I, 459-487)


Priamo supplica Achille di rendergli il corpo del figlio Ettore
Coppa del I secolo, dal corredo funebre di Casius Silius, comandante romano della Germania Superior



Constitit et lacrimans 'Quis iam locus,' inquit, 'Achate,
quae regio in terris nostri non plena laboris?            
En Priamus. Sunt hic etiam sua praemia laudi,
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem.'
Sic ait atque animum pictura pascit inani
multa gemens, largoque umectat flumine vultum.
Namque videbat uti bellantes Pergama circum    anastrofe
hac fugerent Grai, premeret Troiana iuventus;
hac Phryges, instaret curru cristatus Achilles.
Nec procul hinc Rhesi niveis tentoria velis
agnoscit lacrimans, primo quae prodita somno
Tydides multa vastabat caede cruentus,
ardentisque avertit equos in castra prius quam
pabula gustassent Troiae Xanthumque bibissent.
Parte alia fugiens amissis Troilus armis, 
infelix puer atque impar congressus Achilli,
fertur equis curruque haeret resupinus inani,             
lora tenens tamen; huic cervixque comaeque trahuntur
per terram, et versa pulvis inscribitur hasta.
Interea ad templum non aequae Palladis ibant
crinibus Iliades passis peplumque ferebant
suppliciter, tristes et tunsae pectora palmis;
diva solo fixos oculos aversa tenebat.
Ter circum Iliacos raptaverat Hectora muros
exanimumque auro corpus vendebat Achilles.
Tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo,
ut spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici    
tendentemque manus Priamum conspexit inermis.

Si fermò e piangendo “Quale luogo mai, disse, Acate,
quale regione sulla terra non piena del nostro affanno?
Ecco Priamo. Pure qui l’onore ha i suoi premi,
ci sono lacrime per le sventure e le storie mortali commuovono.
Non aver paura: la fama ti porterà salvezza”.
Così dice e nutre il cuore con la pittura vana
gemendo molto, ed irriga il volto di abbondante fiume.
Infatti vedeva come, combattendo attorno a Pergamo,
di qua fuggissero i Greci, la gioventù troiana incalzasse;
di qua i Frigi, e col cocchio il  crestato Achille inseguisse.
E non lontano da qui riconosce piangendo le tende di Reso
dai bianchi drappi, che tradite nel primo sonno
il Tidide insanguinato devastava con larga strage,
e devia i cavalli ardenti nell’accampamento, prima che
gustassero i pascoli di Troia e bevessero lo Xanto.
Da un’altra parte Troilo, perdute le armi, fuggendo,
sfortunato ragazzo e scontratosi impari con Achille,
è trascinato dai cavalli e riverso è legato al cocchio vuoto,
ancora tenendo le briglie; a lui il collo e le chiome son tirate
per terra, e la polvere è segnata dall’asta rigirata.
Intanto andavano al tempio di Pallade  non giusta
le Troiane, coi capelli sciolti e portavano il peplo
umilmente, tristi e battendo i petti con le palme;
la dea teneva gli occhi fissi al suolo ostile.
Achille tre volte aveva trascinato Ettore attorno le mura troiane
e vendeva il corpo esanime per oro.
Allora davvero dà un immenso gemito dal fondo del cuore,
come vide le spoglie, ed i cocchi, e lo stesso corpo dell’amico
e Priamo tendente le mani inermi.


Enea piange. Noi lettori del primo libro dell’Eneide, ancora frastornati dalla bufera improvvisa con cui Virgilio ci ha ammaliati fin dall’inizio dell’opera, stavamo conoscendo il nostro eroe come un forte condottiero, provato ma non abbattuto dalla tempesta escogitata dalla nemica Giunone, capace di fare “buon viso a cattivo gioco” per rincuorare i compagni naufraghi, rincuorato pure dalla madre, che gli era apparsa sotto false sembianze ma lo aveva aiutato, istruito e protetto...
Ma ora, nel tempio in costruzione a Cartagine, sorpreso dalle raffigurazioni della fine della sua città, di fronte all’evidenza pittorica della rappresentazione della sconfitta di Troia, Enea piange.
Non è un pianto di disperazione, non è neppure solo un pianto di dolore; si tratta di una manifestazione di pietà, della commozione profonda e irrefenabile di fronte al destino della propria patria, riassunta e simboleggiata in Priamo. Ma non solo.
Enea sorprende il fido scudiero Acate: perché da una parte soffre in modo violento (altrimenti non piangerebbe), dall’altra è commosso dall’onore reso con tanta magnanimità ai vinti troiani. E, tra le lacrime, gli dice che tutto questo è talmente bello da provocargli un pianto che potremmo quasi definire “di gratitudine”: è bellissimo che Priamo resti immortalato dall’arte nel suo terribile dolore, è bellissimo perché testimonia di un cuore capace di rendere onore (sunt etiam sua praemia laudi) a chi lo merita. Sunt lacrimae rerum: ci si sa commuovere per le disgrazie – et mentem mortalia tangunt, e le vicende umane toccano il cuore.
Perciò, veramente a sorpresa, Acate si sente dire, a mo’ di conclusione: solve metus – non aver paura! Come, siamo in terra nemica, non conosciamo ancora questo popolo, siamo stati sbattuti qui da una bufera provocata dagli dèi avversi, abbiamo forse perso più della metà delle navi e dell’equipaggio, il capo sta piangendo... e mi dice di non aver paura? Sì, risponde Enea, perché haec fama – questa stessa fama, feret tibi aliquam salutem – ti salverà, in un modo che ora non sai. Questi premi all’onore, queste lacrime per le sventure, questa commozione ci porteranno salvezza: non abbiamo nulla da temere!
L’ultima parola non è degli dèi cattivi e ostili, l’ultima parola non appartiene neppure alle vicende di questa terra (la fine della nostra città di Troia, e del nostro re Priamo...). Al di là di tutto questo, c’è un qualcosa di superiore e allo stesso tempo di così tangibile e visibile come questa vana pittura (inani pictura) che mi dice di non temere, di avere fiducia.
Ma – scendendo un po’ in profondità – qual è l’oggetto di questa pietas sia di Enea, sia di chi ha a sua volta commosso Enea testimoniandogli la propria pietas in quelle raffigurazioni e provocando in lui la “risonanza” così sorprendente che abbiamo esaminato?
La figura centrale qui è Priamo, il re della città infelice; ma non solo in quanto re sfortunato, cui tocca assistere alla fine del proprio regno e della propria gente. Priamo ha una caratteristica particolare, qui evidenziata in modo chiaro. Priamo è costretto a vedere la morte dei propri figli.
In questo brano ne sono nominati ben due: Ettore, il più forte e famoso, il grande guerriero, e Troilo, infelix puer, ucciso da Achille dopo aver perso le armi (aspetto ancor più patetico). Si noti come la scena dello scempio del corpo di Ettore, ben nota ai lettori di Omero, venga replicata con ulteriori particolari patetici nel caso del trascinamento del ragazzino Troilo intorno alle mura, tra l’indifferenza assoluta degli dèi (Pallade solo fixos oculos aversa tenebat – non guarda le suppliche, tiene gli occhi fissi altrove: gli dèi non vogliono commuoversi!).
E il culmine del pathos – e del corrispettivo pianto singhiozzante di Enea - viene raggiunto dalla scena finale di questo brano: si tratta della restituzione del corpo di Ettore da Achille a Priamo, che si umilia a baciare la mano dell’uccisore del figlio. Il tema era spesso raffigurato nell’arte antica, come si può vedere nella coppa riportata in apertura.
Così si evidenzia che proprio Priamo è il punto focale della pietas di Enea e dei pittori cartaginesi.
Priamo che vede morire sotto i propri occhi il figlio fortissimo e il figlio debolissimo. Ci dovremo pensare... e ripensare.