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Nato nel 1960 a Pavia, vivo a Roma. Docente di Lettere nei licei, poi pure di Religione cattolica, quando ho vinto una cattedra nella scuola statale ho preferito rinunciare, per proseguire e arricchire l’esperienza di far crescere un nuovo modello scolastico, sostenuto dalle famiglie degli alunni e incentrato sull’impegno educativo comune famiglia – scuola. Con i colleghi, ho riscoperto l’importanza di leggere in classe e di aiutare gli alunni a prendere contatto diretto con i testi classici, che – come Calvino ha insegnato – “ci leggono”: vedi alle voci Virgilio, Dante, Tolkien,... Da una ventina di anni accompagno le prime medie nell’avventura di leggere integralmente l’Eneide; e mi sono appassionato a scovarvi trame narrative robuste e delicate, da riscoprire e rivalutare. Amo il contatto con la natura, le attività agricole e l’apicoltura. Vivendo a Roma da più di trent’anni, mi sono accorto che l’epigrafia può essere un incentivo per gli alunni ad interessarsi al latino, al greco… semplicemente imparando a guardarsi intorno con curiosità. Così sono nati i laboratori epigrafici che hanno il semplice pregio di aver divertito docenti e discenti.

venerdì 13 aprile 2012

Enea “stupefactus numine”


Un brano famoso dell’Eneide ha attirato la mia attenzione, quando l’ho riletto come tutti gli anni nella I media in cui “usiamo” il poema virgiliano come lettura principale, a mo’ di “grande avventura” da rivivere per un intero corso.
Eneide 7, 116-122
'Heus! etiam mensas consumimus' inquit Iulus,
nec plura, adludens. Ea vox audita laborum
prima tulit finem primamque loquentis ab ore
eripuit pater ac stupefactus numine pressit.
Continuo 'Salve, fatis mihi debita tellus
vosque' ait 'o fidi Troiae salvete Penates:
hic domus, hic patria est... 

 “Oh, divoriamo anche le mense" esclamò Iulo,
scherzando, e null'altro. La frase ascoltata per prima
portò la fine degli affanni, e per prima il padre la colse
dal labbro del figlio e la impresse nel cuore ispirato dal nume.
Subito disse: “Salve, o terra a me dovuta dai fati,
e salute a voi, o fidi Penati di Troia:
qui la casa, questa la patria. […]"
(trad. di Luca Canali, Oscar Mondadori)

In questa traduzione mi pare che qualcosa della densa espressione virgiliana si perda: soprattutto, non è chiara l’interpretazione di pressit di cui si sente l’esigenza di “ampliare” il significato in “impresse nel cuore”. Anche la bellissima espressione stupefactus numine viene stemperata in “ispirato dal nume”.
Partiamo proprio da una considerazione su stupefactus numine. Il numen etimologicamente significa “il cenno del capo”, cioè la manifestazione della volontà di un’autorità, tanto più potente quanto più è in grado di manifestare la propria volontà con un minimo cenno. Di conseguenza, come riporta il Castiglioni Mariotti, numen viene a significare “volontà, autorità, ordine”, oppure “volontà divina, maestà, potenza degli dèi”, o infine anche direttamente “divinità, dio, dea”. A me pare che, in questo contesto, Virgilio metta in evidenza come in un piccolo particolare (la frase appena iniziata e scherzosa di Iulo) si manifesti proprio la grandezza, la maestà del piano divino in cui Enea sa di essere immerso. Propenderei dunque per una traduzione che intenda numen non in senso personale (divinità), come suggerisce la parola italiana “nume”, bensì come “maestà” divina che si rende presente nel dettaglio di un attimo.
Ritorniamo ora a considerare l’espressione pressit: essa ha come oggetto primam (vocem), che ovviamente rimane oggetto anche di eripuit. Non mi convince l’interpretazione, peraltro autorevole, seguita da Canali: anche il Castiglioni Mariotti, alla voce premo, riporta: “vocem premere, trattener la voce, tacere (ma: imprimersi una frase nel cuore, VERG. Aen. 7, 119)”. A me pare evidente che si tratta di un’espressione in endiadi: (primam vocem) eripuit… ac… pressit. I termini sono volutamente violenti: Enea “strappa di bocca” a Iulo la frase e poi la “travolge”, la “zittisce” (e questo, ma in senso transitivo, significa frenare la voce, in questo caso del figlio). Tra l’altro, questa risulta essere la spiegazione (che espliciterei con un connettivo come “infatti”) di come mai Iulo non riesce a dire altro (nec plura): la frase del figlio, che ha risonanze “profetiche” per Enea che la ascolta, rimane “nel suo primo inizio” (prima), non riesce a proseguire perché travolta dall’esultanza paterna.

Propongo, sulla base di queste considerazioni, la seguente traduzione:
“Ehi, ci mangiamo anche le mense!" disse Iulo, scherzando, e non poté dire nulla più: infatti, questa frase ascoltata nel suo primo inizio (audita… prima) portò la fine degli affanni, e nel suo primo inizio il padre la colse dalle labbra del figlio e, stupefatto dalla maestà divina, la travolse (pressit): "Salve, - disse - terra a me dovuta dai fati, salve, voi fedeli Penati di Troia: qui la casa, qui la patria..."

Così, forse si riesce a rendere, nella traduzione italiana, la vera e propria “esplosione” di gioia di Enea, dovuta al fatto che – attraverso circostanze apparentemente banali, in questo caso una battuta di Iulo – si accorge che gli sta parlando la maestà divina: e questo lo rende stupefactus ed entusiasta (lui sempre così misurato).

sabato 7 aprile 2012

VALLE DI LACRIME?


Queste brevi considerazioni nascono da una domanda: è vero che i cristiani considerano questo mondo come una “valle di lacrime”? Questa espressione corrisponde a un autentico atteggiamento cristiano nei confronti del mondo? E può essere considerata una sintesi valida dello sguardo evangelico sulla realtà della vita terrena?

Perlomeno a partire dall’Ottocento, l’immagine dellavalle di lacrime” è stata bersaglio della critica atea, in particolare in area tedesca da parte di Karl Marx e Heinrich Heine; di quest’ultimo è divenuta proverbiale in Germania la citazione, ironica, della suonatrice di arpa, che sogna rassegnata un aldilà compensatorio rispetto alle sofferenze della vita:

Sie sang vom irdischen Jammertal,
Von Freuden, die bald zerronnen,
Vom Jenseits, wo die Seele schwelgt
Verklärt in ew'gen Wonnen.

Cantava della valle di lacrime terrestre,
Delle gioie, che ben presto svanirono,
Dell'aldilà, dove l'anima gode
Trasfigurata nella beatitudine eterna.
(Deutschland. Racconto d'inverno), (1844)

Se ci interessa trovare una risposta a queste facili ironie, potrà venirci in aiuto la scoperta, modesta ma ricca di conseguenze, che l’espressione, presente nella preghiera della “Salve Regina”, dove gli oranti si presentano come “gementi e piangenti in questa valle di lacrime” (gementes et flentes in hac lacrimarum valle), ha un’evidente origine biblica nel salmo 84 (83); per effettuare adeguati confronti, riporto qui per esteso anche tale salmo, nella traduzione CEI – UELCI 2008.

1Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!

2L’anima mia anela
e desidera gli atri del Signore.

3Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente

4Anche il passero trova una casa
e la rondine il suo nido
dove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari,
Signore degli eserciti,
mio re e mio Dio.

5Beato chi abita nella tua casa,
senza fine canta le tue lodi.

6Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio
e ha le tue vie nel suo cuore.

7Passando per la valle del pianto
la cambia in una sorgente;
anche la prima pioggia
l’ammanta di benedizioni.

8Cresce lungo il cammino il suo vigore,
finché compare davanti a Dio in Sion.

9Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio, Dio di Giacobbe.

10Guarda, o Dio colui che è il nostro scudo,
guarda il volto del tuo consacrato.

11Sì, è meglio un giorno nei tuoi atri
che mille nella mia casa,
stare sulla soglia della casa del mio Dio
è meglio che abitare nelle tende dei malvagi.

12Perché sole e scudo è il Signore Dio,
il Signore concede grazia e gloria,
non rifiuta il bene
a chi cammina nell’integrità.

13Signore degli eserciti,
beato l’uomo che in te confida.

La nota al salmo, nella citata edizione CEI – UELCI, evidenzia: “Il centro di questo “canto di Sion” (vedi nota a Sal 46) è il tempio di Gerusalemme, dove il Signore di tutto l’universo ha posto la sua dimora e da dove effonde vita e benedizione per il suo popolo. Le parole di questo canto sono messe sulle labbra del pellegrino, che ritma la preghiera con un triplice movimento: il desiderio struggente della casa del Signore, il cammino verso la città santa e il tempio (probabilmente un pellegrinaggio in occasione delle tre principali feste dell’anno) e l’ingresso nel tempio, che diventa anche la meta ideale del cammino interiore dell’uomo verso Dio” (mio corsivo).

L’espressione “valle del pianto” (v.7) traduce l’ebraico עמק הבכא emek habaka (Valle della Baka’):  un’area senz’acqua che doveva essere attraversata nel pellegrinaggio, prima di giungere alla meta. Il termine veniva tradotto nella Vulgata come vallis Lacrimarum[1] e da lì è certamente stato preso dall’autore della Salve Regina.

Concentriamoci sul senso dell’espressione all’interno del contesto originario, quello del salmo; l’autore esprime con questa immagine il fatto che se si “punta” a Dio, se si sta camminando verso Dio, qualunque paesaggio, fosse anche la “valle del pianto” o “valle degli sterpi”, viene trasfigurato e trasformato: siamo in un contesto di ottimismo diremmo “estremo”, giustificato dalla presenza del Tempio in cui abita il Signore, al termine del tragitto del pellegrino. La valle arida diventa una sorgente, le prime piogge la fanno fiorire, chi cammina (in salita!) verso Gerusalemme sente addirittura crescere le proprie forze.

Riconsideriamo ora l’espressione all’interno della preghiera mariana medievale, anch’essa caratterizzata da un andamento in tre rapidi movimenti, che esaminiamo brevemente.

Salve, Regina  [Mater][2] misericordiae
vita, dulcedo et spes nostra, salve.

La parte iniziale è chiaramente un saluto, come saluto è la preghiera principale mariana, anch’essa di origine biblica, l’Ave, Maria; ma la preghiera della Salve considera la Madre di Gesù come Regina della misericordia, dunque nella sua maestà e nel suo potere di intercessione verso la misericordia del Padre. E per questo ne mette subito in luce pure alcuni tratti molto affettuosi e benevoli dal nostro punto di vista: vita, dolcezza, speranza.

Ad te clamamus, exules filii Hevae
ad te suspiramus, gementes et flentes in hac lacrimarum valle.

Nella seconda parte, quella centrale, si “rappresentano” la nostra condizione e il motivo per cui ci rivolgiamo alla Regina della misericordia; un motivo certamente di privazione: esilio (in quanto figli di Eva, che hanno perso il Paradiso terrestre), sospiri, gemiti e pianti nella valle delle lacrime. La caratterizzazione della situazione di sofferenza viene “caricata”: i diversi termini scelti sono tutti molto espressivi e connotati negativamente. Da notare il ritmo molto “biblico”, a strofe abbinate (e in questa seconda parte anche l’incipit ripetuto – ad te – sottolinea il parallelismo concettuale dei due “versi”).

Eia ergo, advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte
et Iesum, benedictum fructum ventris tui, nobis post hoc exilium ostende.

La richiesta conclusiva alla nostra “avvocata” è di guardarci, di rivolgerci lo sguardo notoriamente misericordioso e di mostrarci Gesù (il Salvatore), facendoci così già uscire da questo esilio… cioè facendoci entrare di nuovo in Paradiso!

Si può considerare che la drammatica descrizione centrale è incorniciata dalla prima parte (solenne e affettuosa allo stesso tempo) e dalla terza, che è un’invocazione piena di speranza nello sguardo misericordioso di Maria e soprattutto nella presenza salvifica di Gesù; la seconda parte dunque tende a far risaltare le altre due, polarizzando al negativo la nostra condizione attuale. Forse l’allusione alla vallis lacrimarum del salmo 84, che costituisce un esempio paradossale di forte antitesi in un contesto del tutto positivo e ottimista, tende a riprodurre lo stesso “clima” del Salmo 84. Si potrebbe ulteriormente ipotizzare che il verso 10 del Salmo venga ripreso dal riferimento a Gesù nella preghiera mariana.

Mi pare che si possa dire che l’origine biblica dell’espressione valle di lacrime aiuti molto a inquadrarne il significato e il valore nella preghiera della Salve Regina; nei secoli, perdendo di vista tale origine ed estrapolandola dal contesto della preghiera mariana, pian piano l’espressione è stata intesa sempre più in tono drammatico e negativo, con tendenze pessimiste: la vita umana sulla terra sarebbe vista e vissuta dai credenti come una “valle di lacrime”.

Possiamo aggiungere anche una breve osservazione linguistica: la traduzione italiana “valle di lacrime” è proprio sulla linea “pessimista”; viene facilmente intesa quasi come un “complemento di materia”, come se la valle fosse tutta e solo costituita “di lacrime”. Se invece si fosse tradotto in hac lacrimarum valle con “in questa valle delle lacrime”, sarebbe risaltata forse in modo più evidente l’allusione al salmo, in quanto si sarebbe inteso che esiste una valle chiamata “delle lacrime”, cui la nostra vita talvolta assomiglia.

Recuperare le origini bibliche, come sempre, aiuta a comprendere l’orizzonte di significato di una preghiera che, nata dalla fede, ne è imbevuta e proprio per questo respira l’ottimismo non ingenuo di chi poggia la sua vita e il suo impegno sulla Presenza, solenne e affettuosa ad un tempo, di Dio (e per i cristiani, della Madre del Dio incarnato e Salvatore).


[1] La versione della Vulgata traduceva così i versi 6 e 7 del Salmo 83 (ora 84), nel Salterio cosiddetto Gallicanum: 6. beatus vir cui est auxilium abs te: / ascensiones in corde suo disposuit , 7. in valle lacrimarum, in loco quem posuit. Nel successivo lavoro di traduzione intitolato Psalterium iuxta Hebraeos, lo stesso san Girolamo traduceva l’espressione come in valle fletus. Il Salterio Gallicano è quello che infine prevalse nella diffusione medievale della Vulgata. Il termine ebraico, toponimo, non è particolarmente chiaro, ma allude chiaramente a una valle “degli sterpi” o “dei rovi”. La somiglianza tra baka’ e bakah, che significa “gocciolare, piangere”, secondo gli esegeti può aver portato a questa interpretazione da parte della Vulgata. Ringrazio il prof. Marco Valerio Fabbri per avermi fornito una consulenza sulla storia del testo.

[2] Silverio Mattei, nella voce Salve Regina dell’Enciclopedia Cattolica, vol. X, coll. 1719-1721, spiega che la parola Mater è stata aggiunta in un secondo momento; evidenzia inoltre che “la S.R. è una prosa ritmica e può considerarsi una sequenza con unica rima in –e” (anche –ae, con lo stesso suono), che individua dunque la chiusura di ogni “versetto”. Ecco dunque una chiave certa per esaminare la struttura dell’antifona. Le invocazioni finali sono tradizionalmente considerate un’aggiunta attribuita a san Bernardo (O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria).