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Nato nel 1960 a Pavia, vivo a Roma. Docente di Lettere nei licei, poi pure di Religione cattolica, quando ho vinto una cattedra nella scuola statale ho preferito rinunciare, per proseguire e arricchire l’esperienza di far crescere un nuovo modello scolastico, sostenuto dalle famiglie degli alunni e incentrato sull’impegno educativo comune famiglia – scuola. Con i colleghi, ho riscoperto l’importanza di leggere in classe e di aiutare gli alunni a prendere contatto diretto con i testi classici, che – come Calvino ha insegnato – “ci leggono”: vedi alle voci Virgilio, Dante, Tolkien,... Da una ventina di anni accompagno le prime medie nell’avventura di leggere integralmente l’Eneide; e mi sono appassionato a scovarvi trame narrative robuste e delicate, da riscoprire e rivalutare. Amo il contatto con la natura, le attività agricole e l’apicoltura. Vivendo a Roma da più di trent’anni, mi sono accorto che l’epigrafia può essere un incentivo per gli alunni ad interessarsi al latino, al greco… semplicemente imparando a guardarsi intorno con curiosità. Così sono nati i laboratori epigrafici che hanno il semplice pregio di aver divertito docenti e discenti.

venerdì 29 marzo 2013

A BUTROTO: SORPRESE E DELICATE CONFERME (Eneide, III, 294 – 355)


Dalla Tabula Iliaca Capitolina: il sacrificio di Polissena da parte di Pirro Neottòlemo, sulla tomba di Achille
La scena corrisponde ai versi 321-324: O felix una ante alias Priameia virgo...
La stessa scena, fotografata dalla Tabula Iliaca
Hic incredibilis rerum fama occupat auris,  
Priamiden Helenum Graias regnare per urbis
coniugio Aeacidae Pyrrhi sceptrisque potitum,
et patrio Andromachen iterum cessisse marito.
Obstipui, miroque incensum pectus amore
compellare virum et casus cognoscere tantos.
Progredior portu classis et litora linquens,
sollemnis cum forte dapes et tristia dona
ante urbem in luco falsi Simoentis ad undam
libabat cineri Andromache manisque vocabat
Hectoreum ad tumulum, viridi quem caespite inanem
et geminas, causam lacrimis, sacraverat aras.
Ut me conspexit venientem et Troia circum
arma amens vidit, magnis exterrita monstris
deriguit visu in medio, calor ossa reliquit,
labitur, et longo vix tandem tempore fatur:
'Verane te facies, verus mihi nuntius adfers,   
nate dea? vivisne? aut, si lux alma recessit,
Hector ubi est?' dixit, lacrimasque effudit et omnem
implevit clamore locum. Vix pauca furenti
subicio et raris turbatus vocibus hisco:
'Vivo equidem vitamque extrema per omnia duco;
ne dubita, nam vera vides. 
Heu. Quis te casus deiectam coniuge tanto
excipit, aut quae digna satis fortuna revisit,
Hectoris Andromache? Pyrrhin conubia servas?'
Deiecit vultum et demissa voce locuta est:
'O felix una ante alias Priameia virgo,
hostilem ad tumulum Troiae sub moenibus altis
iussa mori, quae sortitus non pertulit ullos
nec victoris heri tetigit captiva cubile.
Nos patria incensa diversa per aequora vectae
stirpis Achilleae fastus iuvenemque superbum
servitio enixae tulimus; qui deinde secutus
Ledaeam Hermionen Lacedaemoniosque hymenaeos
me famulo famulamque Heleno transmisit habendam.
Ast illum ereptae magno flammatus amore
coniugis et scelerum furiis agitatus Orestes
excipit incautum patriasque obtruncat ad aras.
Morte Neoptolemi regnorum reddita cessit
pars Heleno, qui Chaonios cognomine campos
Chaoniamque omnem Troiano a Chaone dixit,
Pergamaque Iliacamque iugis hanc addidit arcem.
Sed tibi qui cursum venti, quae fata dedere?
aut quisnam ignarum nostris deus appulit oris?
Quid puer Ascanius? superatne et vescitur aura?
quem tibi iamTroia -
ecqua tamen puero est amissae cura parentis?
ecquid in antiquam virtutem animosque virilis
et pater Aeneas et avunculus excitat Hector?'
Talia fundebat lacrimans longosque ciebat
incassum fletus, cum sese a moenibus heros
Priamides multis Helenus comitantibus adfert,
agnoscitque suos laetusque ad limina ducit,
et multum lacrimas verba inter singula fundit. 
Procedo et parvam Troiam simulataque magnis
Pergama et arentem Xanthi cognomine rivum
agnosco, Scaeaeque amplector limina portae;
nec non et Teucri socia simul urbe fruuntur.
Illos porticibus rex accipiebat in amplis:
aulai medio libabant pocula Bacchi
impositis auro dapibus, paterasque tenebant.
Qui un'incredibile fama mi riempie le orecchie,
che il priamide Eleno regna su città greche
impadronitosi delle nozze e degli scettri dell'eacide Pirro,
Andromaca è ritornata ad un marito della patria.
Stupii, il cuore acceso da singolare amore
di parlare all’uomo e conoscere sì grandi sorti.

Avanzo dal porto lasciando flotte e lidi,
quando per caso Andromaca libava alla tomba vivande
e tristi doni davanti alla città in un bosco alla riva
d’un falso Simoenta ed invocava i Mani
presso il tumulo di Ettore, che vuoto aveva consacrato
con verde zolla, con due altari, motivo per le lacrime.
Come mi osservò arrivare e fuor di sè vide attorno
le armi troiane, atterrita per le grandi visioni
sbiancò in mezzo al volto, il calore lasciò le ossa.
Barcolla, e a stento finalmente dopo lungo tempo parla:
“Ti presenti a me come vera forma, vero nunzio,
figlio di dea? sei forse vivo? o se la grande luce fuggì,
Ettore dov’è?” disse e versò lacrime e riempì
tutto il luogo di pianto. A stento rispondo poche parole
a lei che freme e turbato parlo con poche parole:
“Vivo certamente, ma conduco una vita ai limiti estremi;
non dubitare, infatti vedi cose vere.
Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande
marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò,
o Andromaca di Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?”
Abbassò il volto e a voce bassa parlò:
“O sola fra le altre felice vergine priamea,
obbligata a morire sotto le alte mura di Troia
presso il tumulo nemico, che non soffrì nessun sorteggio
né prigioniera toccò il letto del padrone vincitore.
Noi, incendiata la città, condotte per diversi mari
costrette alla schiavitù sopportammo l’orgoglio
ed il superbo giovane della stirpe achillea; ma lui poi
seguendo Ermione ledea e nozze lacedemonie
lasciò me schiava da possedere allo schiavo Eleno.
Ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande

amore della moglie strappata e, scosso dalle furie
dei delitti, lo sgozza presso gli altari paterni.
Per la morte di Neottolemo, una debita parte dei regni
passò ad Eleno, che chiamò caonie le piane
e tutta la Caonia dal nome troiano di Caone,
ed aggiunse sulle cime questa Pergamo, rocca iliaca.
Ma te quale rotta diedero i venti, quali fati?
o quale dio spinse alle nostre spiagge te ignaro?
E il piccolo Ascanio? vive forse e si pasce dell’aria?
chi ormai da Troia ti...
che amore c’è nel bambino della madre perduta?
forse che il padre Enea e lo zio Ettore lo spinge
all’antico eroismo ed al coraggio virile?”
Così prorompeva piangendo ed invano faceva lunghi
lamenti, quando dalle mura l’eroe priamide Eleno,
accompagnato da molti, si presenta,
e riconosce i suoi e lieto li conduce alle porte,
e versa lacrime, molto, tra le singole parole.
Avanzo e riconosco una piccola Troia e Pergamo
imitante la grande ed un ruscello secco col nome
di Xanto, ed abbraccio le soglie della porta Scea;
Anche i Teucri insieme godono della città alleata.
Il re li accoglieva in ampli porticati:
in mezzo alla sala libavano coppe d’oro di Bacco,
apparecchiate vivande e tenevano tazze.

Seguendo Enea nel suo fatale viaggio, a partire dal III libro dell’Eneide pure noi abbandoniamo Troia al suo destino, senza però poterci scordare mai più della scena cui abbiamo assistito, insieme con Enea: il grido finale, drammatico, di Priamo: c’è una pietas quae talia curet?  Interverrà qualcuno in cielo a riparare l’empietà di Pirro, che uccide il figlio sotto gli occhi del padre?
Le peregrinazioni di Enea, in compagnia di Anchise e Ascanio, non sono semplici: il primo tentativo in Tracia si conclude precipitosamente subito dopo il ritrovamento del cadavere di Polidoro (altro figlio di Priamo eliminato a tradimento in dispregio del sacro diritto di ospitalità, a causa della auri sacra fames); l’oracolo di Delo che suggerisce antiquam exquirite matrem viene frainteso proprio da Anchise, che ritiene di doversi dirigere a Creta; la pestilenza costringe a salpare di nuovo, ma la tempesta porta la flotta alle Strofadi, provocando lo sgradevole e infine minaccioso incontro ravvicinato con le Arpie...
Solo dopo il passaggio da Azio – e siamo ormai al centro del libro III – abbiamo l’episodio non lungo, ma significativo, che abbiamo riportato sopra e ora prendiamo in considerazione: un momento di grande speranza, una incredibilis fama, che porta Enea a descriversi come miro... incensum pectus amore, desideroso di correre a cercare conferme. L’incontro è drammatico, tanto da assumere quasi sfumature comiche nella sua pateticità: Andromaca sta pregando fuori da Butroto, novella Pergamo, quando si vede circondata di guerrieri troiani capitanati da Enea in persona, suo cognato. Lì per lì quasi sviene e non capisce se si tratta di sogno o realtà... e quasi quasi spera di essere già nel regno dei morti, per poter rivedere il “suo” Ettore! (vivisne? aut, si lux alma recessit, / Hector ubi est?)
In un racconto potentemente scorciato e sapientemente inquadrato tra la nostalgia di Ettore e la commozione per il nipotino Ascanio, coetaneo del perduto figlio Astianatte, emerge un elemento apparentemente “di sfondo”, che Enea conosce fin dall’inizio, ma vuol farsi raccontare in modo esplicito da Andromaca: la fine di Pirro Neottolemo.
La incredibilis fama lo implicava già: “il priamide Eleno regna su città greche/ impadronitosi delle nozze e degli scettri dell'eacide Pirro, /Andromaca è passata di nuovo ad un marito della patria”. Che fine ha fatto Pirro? Evidentemente è uscito di scena.
Ma Enea non si accontenta dei sottintesi, vuole sapere con certezza e sa come ottenere un racconto esauriente: ad Andromaca chiede: “Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande / marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò, / o Andromaca di Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?” Il riferimento ripetuto ad Ettore, e la domanda finale astutamente provocatoria mirano a ottenere una dichiarazione esplicita sulla fine di Neottolemo.
E infatti, Andromaca racconta tutto; con delicatezza femminile dedica solo alcuni cenni indiretti al triste periodo di concubinato con Pirro, definendo come unica troiana felice Polissena, che era stata sacrificata sulla tomba di Achille, proprio per mano di Pirro Neottolemo (vedi l’ennesima illustrazione tratta dalla Tabula Iliaca Capitolina). Di seguito, Andromaca dettaglia come “il superbo giovane della stirpe achillea... poi / seguendo Ermione ledea e nozze lacedemonie / lasciò me schiava da possedere allo schiavo Eleno. / Ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande amore / della moglie strappata e, scosso dalle furie / dei delitti, lo sgozza presso gli altari paterni”. Segue la spiegazione della costituzione del regno “troiano” di Eleno; e subito dopo Andromaca, come si fosse finalmente resa conto di avere di fronte il cognato acquisito, si lascia andare alla commozione per l’inaspettato incontro, e chiede notizie della famiglia di Enea, in particolare del nipotino Ascanio, che ricollega nel ricordo allo zio Ettore, chiudendo in modo commosso e circolare tutto il discorso, che da Ettore era partito.
Ecco, Enea ha saputo tutto, e noi con lui. Egli non esprime alcun giudizio, neppure un commento: ma noi, che siamo con lui portatori della domanda cruciale di Priamo, ormai sappiamo. Non possiamo gioirne in modo scomposto, non sarebbe consono alla nostra speranza, ma cominciamo a intravvedere che est pietas quae talia curet. Il destino di Pirro si è tragicamente concluso in una sorta di dantesco contrappasso: lui che aveva ucciso brutalmente Priamo presso gli altari di Pergamo e non aveva avuto pietà neppure per la promessa sposa troiana di suo padre Achille, ha subito un crudele agguato da parte di Oreste, che “excipit incautum patriasque obtruncat ad aras”. Forse siamo sobbalzati pure noi, con Enea, all’evidente ricordo di quel “Iacet ingens litore truncus” che aveva concluso in modo altrettanto macabro il racconto della morte di Priamo nel libro II.
Ma non ci fermiamo all’applicazione della legge del taglione; ci accorgiamo, dal delicato racconto di Andromaca, che da questa sorta di “punizione divina” è scaturito un inaspettato, stupefacente esito, con il ripristino di un matrimonio troiano per Andromaca e la costituzione di un singolarissimo regno pergameo in Caonia. Un primo esempio di restitutio in integrum, un sogno realizzato, un presagio quanto mai convincente della presenza di una provvidenza che si prende cura delle vicende umane, e che in particolare sembra aver udito e raccolto il grido di Priamo, dandogli una risposta effettiva ma come nascosta, visibile solo a chi la cerca con attenzione.
Solve metus, ci immaginiamo che Enea dica innanzitutto a se stesso in questo frangente: coraggio, non aver paura! E la conclusione del discorso di Andromaca, che diventa concitato nel susseguirsi di domande relative ad Ascanio, ci porta con Enea a sperare e a sognare il futuro, come una dolce musica sommessa che tuttavia si comincia a percepire, nel nome del grande Ettore che costituisce la “cifra”, la ragion d’essere di questa incredibile creatura sopravvissuta a tante dure prove, di nome Andromaca.
Enea era partito di corsa, sulla base delle notizie iniziali, per chiedere conferme a Eleno: forse cercava la soluzione matematica, “maschile”, di un’equazione relativa alla pietas divina. Ma ha incontrato per prima Andromaca, che gli ha fornito una spiegazione tutta “femminile”, intrisa di umanità delicata e dolente e di amore appassionato per i legami familiari. Magistrale risposta poetica, di tono tutto virgiliano, al dramma della pietas che sta emergendo quale tema ricorrente di tutto il poema.