Dalla Tabula Iliaca Capitolina:
il sacrificio di Polissena da parte di Pirro Neottòlemo, sulla tomba di Achille
La scena corrisponde ai versi 321-324: O felix una ante alias Priameia virgo...
La stessa
scena, fotografata dalla Tabula Iliaca
Hic
incredibilis rerum fama occupat auris,
Priamiden
Helenum Graias regnare per urbis
coniugio
Aeacidae Pyrrhi sceptrisque
potitum,
et patrio
Andromachen iterum cessisse marito.
Obstipui,
miroque incensum pectus amore
compellare
virum et casus cognoscere tantos.
Progredior
portu classis et litora linquens,
sollemnis
cum forte dapes et tristia dona
ante
urbem in luco falsi Simoentis ad undam
libabat
cineri Andromache manisque vocabat
Hectoreum
ad tumulum, viridi quem caespite inanem
et
geminas, causam lacrimis, sacraverat aras.
Ut me
conspexit venientem et Troia circum
arma
amens vidit, magnis exterrita monstris
deriguit
visu in medio, calor ossa reliquit,
labitur,
et longo vix tandem tempore fatur:
'Verane
te facies, verus mihi nuntius adfers,
nate dea?
vivisne? aut, si lux alma recessit,
Hector
ubi est?' dixit, lacrimasque effudit et omnem
implevit clamore locum. Vix pauca furenti
subicio et raris turbatus vocibus hisco:
'Vivo equidem vitamque extrema per omnia duco;
ne
dubita, nam vera vides.
Heu. Quis te casus deiectam coniuge tanto
excipit,
aut quae digna satis fortuna revisit,
Hectoris
Andromache? Pyrrhin conubia servas?'
Deiecit
vultum et demissa voce locuta est:
'O felix
una ante alias Priameia virgo,
hostilem
ad tumulum Troiae sub moenibus altis
iussa
mori, quae sortitus non pertulit ullos
nec
victoris heri tetigit captiva cubile.
Nos
patria incensa diversa per aequora vectae
stirpis
Achilleae fastus iuvenemque superbum
servitio
enixae tulimus; qui deinde secutus
Ledaeam
Hermionen Lacedaemoniosque hymenaeos
me famulo
famulamque Heleno transmisit habendam.
Ast illum
ereptae magno flammatus amore
coniugis
et scelerum furiis agitatus Orestes
excipit
incautum patriasque obtruncat ad aras.
Morte
Neoptolemi regnorum reddita cessit
pars
Heleno, qui Chaonios cognomine campos
Chaoniamque
omnem Troiano a Chaone dixit,
Pergamaque
Iliacamque iugis hanc addidit arcem.
Sed tibi
qui cursum venti, quae fata dedere?
aut
quisnam ignarum nostris deus appulit oris?
Quid puer Ascanius? superatne et vescitur aura?
quem tibi
iamTroia -
ecqua
tamen puero est amissae cura parentis?
ecquid in
antiquam virtutem animosque virilis
et pater
Aeneas et avunculus excitat Hector?'
Talia
fundebat lacrimans longosque ciebat
incassum
fletus, cum sese a moenibus heros
Priamides
multis Helenus comitantibus adfert,
agnoscitque
suos laetusque ad limina ducit,
et multum
lacrimas verba inter singula fundit.
Procedo et parvam Troiam simulataque magnis
Pergama
et arentem Xanthi cognomine rivum
agnosco,
Scaeaeque amplector limina portae;
nec non
et Teucri socia simul urbe fruuntur.
Illos
porticibus rex accipiebat in amplis:
aulai
medio libabant pocula Bacchi
impositis
auro dapibus, paterasque tenebant.
|
Qui
un'incredibile fama mi riempie le orecchie,
che il
priamide Eleno regna su città greche
impadronitosi delle nozze e degli scettri dell'eacide Pirro, Andromaca è ritornata ad un marito della patria.
Stupii,
il cuore acceso da singolare amore
di parlare all’uomo e conoscere sì grandi sorti. Avanzo dal porto lasciando flotte e lidi, quando per caso Andromaca libava alla tomba vivande
e tristi
doni davanti alla città in un bosco alla riva
d’un
falso Simoenta ed invocava i Mani
presso il tumulo di Ettore, che vuoto aveva consacrato con verde zolla, con due altari, motivo per le lacrime. Come mi osservò arrivare e fuor di sè vide attorno le armi troiane, atterrita per le grandi visioni sbiancò in mezzo al volto, il calore lasciò le ossa. Barcolla, e a stento finalmente dopo lungo tempo parla: “Ti presenti a me come vera forma, vero nunzio, figlio di dea? sei forse vivo? o se la grande luce fuggì, Ettore dov’è?” disse e versò lacrime e riempì tutto il luogo di pianto. A stento rispondo poche parole a lei che freme e turbato parlo con poche parole: “Vivo certamente, ma conduco una vita ai limiti estremi; non dubitare, infatti vedi cose vere. Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò, o Andromaca di Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?” Abbassò il volto e a voce bassa parlò: “O sola fra le altre felice vergine priamea, obbligata a morire sotto le alte mura di Troia presso il tumulo nemico, che non soffrì nessun sorteggio né prigioniera toccò il letto del padrone vincitore. Noi, incendiata la città, condotte per diversi mari costrette alla schiavitù sopportammo l’orgoglio ed il superbo giovane della stirpe achillea; ma lui poi seguendo Ermione ledea e nozze lacedemonie lasciò me schiava da possedere allo schiavo Eleno. Ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande amore della moglie strappata e, scosso dalle furie
dei
delitti, lo sgozza presso gli altari paterni.
Per la morte di Neottolemo, una debita parte dei regni
passò ad
Eleno, che chiamò caonie le piane
e tutta la Caonia dal nome troiano di Caone, ed aggiunse sulle cime questa Pergamo, rocca iliaca. Ma te quale rotta diedero i venti, quali fati? o quale dio spinse alle nostre spiagge te ignaro? E il piccolo Ascanio? vive forse e si pasce dell’aria? chi ormai da Troia ti... che amore c’è nel bambino della madre perduta? forse che il padre Enea e lo zio Ettore lo spinge all’antico eroismo ed al coraggio virile?” Così prorompeva piangendo ed invano faceva lunghi lamenti, quando dalle mura l’eroe priamide Eleno, accompagnato da molti, si presenta, e riconosce i suoi e lieto li conduce alle porte, e versa lacrime, molto, tra le singole parole. Avanzo e riconosco una piccola Troia e Pergamo imitante la grande ed un ruscello secco col nome di Xanto, ed abbraccio le soglie della porta Scea; Anche i Teucri insieme godono della città alleata. Il re li accoglieva in ampli porticati: in mezzo alla sala libavano coppe d’oro di Bacco, apparecchiate vivande e tenevano tazze. |
Seguendo Enea nel suo fatale
viaggio, a partire dal III libro dell’Eneide pure noi abbandoniamo Troia al suo
destino, senza però poterci scordare mai più della scena cui abbiamo assistito,
insieme con Enea: il grido finale, drammatico, di Priamo: c’è una pietas
quae talia curet? Interverrà qualcuno
in cielo a riparare l’empietà di Pirro, che uccide il figlio sotto gli occhi
del padre?
Le peregrinazioni di Enea, in
compagnia di Anchise e Ascanio, non sono semplici: il primo tentativo in Tracia
si conclude precipitosamente subito dopo il ritrovamento del cadavere di
Polidoro (altro figlio di Priamo eliminato a tradimento in dispregio del sacro
diritto di ospitalità, a causa della auri sacra fames); l’oracolo di
Delo che suggerisce antiquam exquirite matrem viene frainteso proprio da
Anchise, che ritiene di doversi dirigere a Creta; la pestilenza costringe a
salpare di nuovo, ma la tempesta porta la flotta alle Strofadi, provocando lo
sgradevole e infine minaccioso incontro ravvicinato con le Arpie...
Solo dopo il passaggio da Azio
– e siamo ormai al centro del libro III – abbiamo l’episodio non lungo, ma
significativo, che abbiamo riportato sopra e ora prendiamo in considerazione:
un momento di grande speranza, una incredibilis fama, che porta Enea a
descriversi come miro... incensum pectus amore, desideroso di correre a
cercare conferme. L’incontro è drammatico, tanto da assumere quasi sfumature
comiche nella sua pateticità: Andromaca sta pregando fuori da Butroto, novella
Pergamo, quando si vede circondata di guerrieri troiani capitanati da Enea in
persona, suo cognato. Lì per lì quasi sviene e non capisce se si tratta di
sogno o realtà... e quasi quasi spera di essere già nel regno dei morti, per
poter rivedere il “suo” Ettore! (vivisne? aut, si lux alma recessit, /
Hector ubi est?)
In un racconto potentemente
scorciato e sapientemente inquadrato tra la nostalgia di Ettore e la commozione
per il nipotino Ascanio, coetaneo del perduto figlio Astianatte, emerge un
elemento apparentemente “di sfondo”, che Enea conosce fin dall’inizio, ma vuol
farsi raccontare in modo esplicito da Andromaca: la fine di Pirro Neottolemo.
La incredibilis fama lo implicava
già: “il priamide Eleno regna su città greche/ impadronitosi delle nozze e
degli scettri dell'eacide Pirro, /Andromaca è passata di nuovo ad un marito
della patria”. Che fine ha fatto Pirro? Evidentemente è uscito di scena.
Ma Enea non si accontenta dei
sottintesi, vuole sapere con certezza e sa come ottenere un racconto esauriente:
ad Andromaca chiede: “Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande /
marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò, / o Andromaca di
Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?” Il riferimento ripetuto ad Ettore,
e la domanda finale astutamente provocatoria mirano a ottenere una
dichiarazione esplicita sulla fine di Neottolemo.
E infatti, Andromaca racconta
tutto; con delicatezza femminile dedica solo alcuni cenni indiretti al triste
periodo di concubinato con Pirro, definendo come unica troiana felice
Polissena, che era stata sacrificata sulla tomba di Achille, proprio per mano
di Pirro Neottolemo (vedi l’ennesima illustrazione tratta dalla Tabula Iliaca Capitolina). Di seguito,
Andromaca dettaglia come “il superbo giovane della stirpe achillea... poi / seguendo
Ermione ledea e nozze lacedemonie / lasciò me schiava da possedere allo schiavo
Eleno. / Ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande amore / della
moglie strappata e, scosso dalle furie / dei delitti, lo sgozza presso gli
altari paterni”. Segue la spiegazione della costituzione del regno “troiano” di
Eleno; e subito dopo Andromaca, come si fosse finalmente resa conto di avere di
fronte il cognato acquisito, si lascia andare alla commozione per l’inaspettato
incontro, e chiede notizie della famiglia di Enea, in particolare del nipotino
Ascanio, che ricollega nel ricordo allo zio Ettore, chiudendo in modo commosso
e circolare tutto il discorso, che da Ettore era partito.
Ecco, Enea ha saputo tutto, e
noi con lui. Egli non esprime alcun giudizio, neppure un commento: ma noi, che
siamo con lui portatori della domanda cruciale di Priamo, ormai sappiamo. Non
possiamo gioirne in modo scomposto, non sarebbe consono alla nostra speranza,
ma cominciamo a intravvedere che est pietas quae talia curet. Il destino
di Pirro si è tragicamente concluso in una sorta di dantesco contrappasso: lui
che aveva ucciso brutalmente Priamo presso gli altari di Pergamo e non aveva
avuto pietà neppure per la promessa sposa troiana di suo padre Achille, ha
subito un crudele agguato da parte di Oreste, che “excipit incautum
patriasque obtruncat ad aras”. Forse siamo sobbalzati pure noi, con
Enea, all’evidente ricordo di quel “Iacet ingens litore truncus” che
aveva concluso in modo altrettanto macabro il racconto della morte di Priamo
nel libro II.
Ma non ci fermiamo all’applicazione
della legge del taglione; ci accorgiamo, dal delicato racconto di Andromaca,
che da questa sorta di “punizione divina” è scaturito un inaspettato, stupefacente
esito, con il ripristino di un matrimonio troiano per Andromaca e la
costituzione di un singolarissimo regno pergameo in Caonia. Un primo esempio di
restitutio in integrum, un sogno realizzato, un presagio quanto mai
convincente della presenza di una provvidenza che si prende cura delle vicende
umane, e che in particolare sembra aver udito e raccolto il grido di Priamo, dandogli
una risposta effettiva ma come nascosta, visibile solo a chi la cerca con
attenzione.
Solve metus, ci immaginiamo che
Enea dica innanzitutto a se stesso in questo frangente: coraggio, non aver
paura! E la conclusione del discorso di Andromaca, che diventa concitato nel
susseguirsi di domande relative ad Ascanio, ci porta con Enea a sperare e a
sognare il futuro, come una dolce musica sommessa che tuttavia si comincia a
percepire, nel nome del grande Ettore che costituisce la “cifra”, la ragion
d’essere di questa incredibile creatura sopravvissuta a tante dure prove, di
nome Andromaca.
Enea era partito di corsa,
sulla base delle notizie iniziali, per chiedere conferme a Eleno: forse cercava
la soluzione matematica, “maschile”, di un’equazione relativa alla pietas
divina. Ma ha incontrato per prima Andromaca, che gli ha fornito una spiegazione
tutta “femminile”, intrisa di umanità delicata e dolente e di amore
appassionato per i legami familiari. Magistrale risposta poetica, di tono tutto
virgiliano, al dramma della pietas che sta emergendo quale tema
ricorrente di tutto il poema.
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