Coppa del I
secolo, dal corredo funebre di Casius Silius, comandante romano della Germania
Superior
Constitit et lacrimans 'Quis iam locus,' inquit,
'Achate,
quae
regio in terris nostri non plena laboris?
En Priamus.
Sunt hic etiam sua praemia laudi,
sunt
lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt.
Solve metus; feret haec aliquam tibi fama salutem.'
Sic ait atque animum pictura pascit inani
multa gemens, largoque umectat flumine vultum.
Namque videbat uti bellantes Pergama circum
hac fugerent Grai, premeret Troiana iuventus;
hac Phryges, instaret curru cristatus Achilles.
Nec procul hinc Rhesi niveis tentoria velis
agnoscit lacrimans,
primo quae prodita somno
Tydides
multa vastabat caede cruentus,
ardentisque
avertit equos in castra prius quam
pabula
gustassent Troiae Xanthumque bibissent.
Parte alia fugiens amissis Troilus armis,
infelix puer atque impar congressus Achilli,
fertur equis curruque haeret resupinus inani,
lora tenens tamen; huic cervixque comaeque trahuntur
per terram, et versa pulvis inscribitur hasta.
Interea
ad templum non aequae Palladis ibant
crinibus Iliades passis peplumque ferebant
suppliciter, tristes et tunsae pectora palmis;
diva solo fixos oculos aversa tenebat.
Ter circum Iliacos raptaverat Hectora muros
exanimumque auro corpus vendebat Achilles.
Tum vero ingentem gemitum dat pectore ab imo,
ut spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici
tendentemque manus Priamum conspexit inermis.
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Si fermò
e piangendo “Quale luogo mai, disse, Acate,
quale regione sulla terra non piena del nostro affanno? Ecco Priamo. Pure qui l’onore ha i suoi premi, ci sono lacrime per le sventure e le storie mortali commuovono. Non aver paura: la fama ti porterà salvezza”. Così dice e nutre il cuore con la pittura vana gemendo molto, ed irriga il volto di abbondante fiume.
Infatti vedeva come, combattendo attorno a Pergamo,
di qua fuggissero i Greci, la gioventù troiana incalzasse; di qua i Frigi, e col cocchio il crestato Achille inseguisse. E non lontano da qui riconosce piangendo le tende di Reso dai bianchi drappi, che tradite nel primo sonno il Tidide insanguinato devastava con larga strage, e devia i cavalli ardenti nell’accampamento, prima che gustassero i pascoli di Troia e bevessero lo Xanto. Da un’altra parte Troilo, perdute le armi, fuggendo, sfortunato ragazzo e scontratosi impari con Achille, è trascinato dai cavalli e riverso è legato al cocchio vuoto,
ancora
tenendo le briglie; a lui il collo e le chiome son tirate
per
terra, e la polvere è segnata dall’asta rigirata.
Intanto andavano al tempio di Pallade non giusta
le
Troiane, coi capelli sciolti e portavano il peplo
umilmente, tristi e battendo i petti con le palme; la dea teneva gli occhi fissi al suolo ostile. Achille tre volte aveva trascinato Ettore attorno le mura troiane
e vendeva
il corpo esanime per oro.
Allora davvero dà un immenso gemito dal fondo del cuore, come vide le spoglie, ed i cocchi, e lo stesso corpo dell’amico
e Priamo
tendente le mani inermi.
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Enea piange. Noi lettori del primo libro dell’Eneide, ancora frastornati
dalla bufera improvvisa con cui Virgilio ci ha ammaliati fin dall’inizio
dell’opera, stavamo conoscendo il nostro eroe come un forte condottiero,
provato ma non abbattuto dalla tempesta escogitata dalla nemica Giunone, capace
di fare “buon viso a cattivo gioco” per rincuorare i compagni naufraghi,
rincuorato pure dalla madre, che gli era apparsa sotto false sembianze ma lo aveva
aiutato, istruito e protetto...
Ma ora, nel tempio in costruzione a Cartagine, sorpreso dalle
raffigurazioni della fine della sua città, di fronte all’evidenza pittorica
della rappresentazione della sconfitta di Troia, Enea piange.
Non è un pianto di disperazione, non è neppure solo un pianto di dolore; si
tratta di una manifestazione di pietà, della commozione profonda e irrefenabile
di fronte al destino della propria patria, riassunta e simboleggiata in Priamo.
Ma non solo.
Enea sorprende il fido scudiero Acate: perché da una parte soffre in modo
violento (altrimenti non piangerebbe), dall’altra è commosso dall’onore reso
con tanta magnanimità ai vinti troiani. E, tra le lacrime, gli dice che tutto
questo è talmente bello da provocargli un pianto che potremmo quasi definire “di
gratitudine”: è bellissimo che Priamo resti immortalato dall’arte nel suo
terribile dolore, è bellissimo perché testimonia di un cuore capace di rendere
onore (sunt etiam sua praemia laudi) a chi lo merita. Sunt lacrimae
rerum: ci si sa commuovere per le disgrazie – et mentem mortalia tangunt,
e le vicende umane toccano il cuore.
Perciò, veramente a sorpresa, Acate si sente dire, a mo’ di conclusione: solve
metus – non aver paura! Come, siamo in terra nemica, non conosciamo ancora
questo popolo, siamo stati sbattuti qui da una bufera provocata dagli dèi
avversi, abbiamo forse perso più della metà delle navi e dell’equipaggio, il
capo sta piangendo... e mi dice di non aver paura? Sì, risponde Enea, perché haec
fama – questa stessa fama, feret tibi aliquam salutem – ti salverà,
in un modo che ora non sai. Questi premi all’onore, queste lacrime per le
sventure, questa commozione ci porteranno salvezza: non abbiamo nulla da
temere!
L’ultima parola non è degli dèi cattivi e ostili, l’ultima parola non
appartiene neppure alle vicende di questa terra (la fine della nostra città di
Troia, e del nostro re Priamo...). Al di là di tutto questo, c’è un qualcosa di
superiore e allo stesso tempo di così tangibile e visibile come questa vana
pittura (inani pictura) che mi dice di non temere, di avere fiducia.
Ma – scendendo un po’ in profondità – qual è l’oggetto di questa pietas
sia di Enea, sia di chi ha a sua volta commosso Enea testimoniandogli la
propria pietas in quelle raffigurazioni e provocando in lui la
“risonanza” così sorprendente che abbiamo esaminato?
La figura centrale qui è Priamo, il re della città infelice; ma non solo in
quanto re sfortunato, cui tocca assistere alla fine del proprio regno e della
propria gente. Priamo ha una caratteristica particolare, qui evidenziata in
modo chiaro. Priamo è costretto a vedere la morte dei propri figli.
In questo brano ne sono nominati ben due: Ettore, il più forte e famoso, il
grande guerriero, e Troilo, infelix puer, ucciso da Achille dopo aver
perso le armi (aspetto ancor più patetico). Si noti come la scena dello scempio
del corpo di Ettore, ben nota ai lettori di Omero, venga replicata con
ulteriori particolari patetici nel caso del trascinamento del ragazzino Troilo
intorno alle mura, tra l’indifferenza assoluta degli dèi (Pallade solo fixos
oculos aversa tenebat – non guarda le suppliche, tiene gli occhi fissi
altrove: gli dèi non vogliono commuoversi!).
E il culmine del pathos – e del corrispettivo pianto singhiozzante
di Enea - viene raggiunto dalla scena finale di questo brano: si tratta della
restituzione del corpo di Ettore da Achille a Priamo, che si umilia a baciare
la mano dell’uccisore del figlio. Il tema era spesso raffigurato nell’arte
antica, come si può vedere nella coppa riportata in apertura.
Così si evidenzia che proprio Priamo è il punto focale della pietas
di Enea e dei pittori cartaginesi.
Priamo che vede morire sotto i propri occhi il figlio fortissimo e il
figlio debolissimo. Ci dovremo pensare... e ripensare.
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