Un brano famoso dell’Eneide ha attirato la mia
attenzione, quando l’ho riletto come tutti gli anni nella I media in cui
“usiamo” il poema virgiliano come lettura principale, a mo’ di “grande
avventura” da rivivere per un intero corso.
Eneide 7,
116-122
'Heus!
etiam mensas consumimus' inquit Iulus,
nec
plura, adludens. Ea vox audita laborum
prima tulit finem primamque
loquentis ab ore
eripuit
pater ac stupefactus numine
pressit.
Continuo 'Salve, fatis
mihi debita tellus
vosque' ait 'o fidi Troiae
salvete Penates:
hic domus, hic patria
est...
“Oh, divoriamo anche le mense"
esclamò Iulo,
scherzando,
e null'altro. La frase ascoltata per prima
portò
la fine degli affanni, e per prima il padre la colse
dal
labbro del figlio e la impresse nel cuore ispirato dal nume.
Subito
disse: “Salve, o terra a me dovuta dai fati,
e
salute a voi, o fidi Penati di Troia:
qui la
casa, questa la patria. […]"
(trad.
di Luca Canali, Oscar Mondadori)
In
questa traduzione mi pare che qualcosa della densa espressione virgiliana si
perda: soprattutto, non è chiara l’interpretazione di pressit di cui si
sente l’esigenza di “ampliare” il significato in “impresse nel cuore”. Anche la
bellissima espressione stupefactus numine viene stemperata in “ispirato
dal nume”.
Partiamo
proprio da una considerazione su stupefactus numine. Il numen
etimologicamente significa “il cenno del capo”, cioè la manifestazione della
volontà di un’autorità, tanto più potente quanto più è in grado di manifestare
la propria volontà con un minimo cenno. Di conseguenza, come riporta il
Castiglioni Mariotti, numen viene a significare “volontà, autorità,
ordine”, oppure “volontà divina, maestà, potenza degli dèi”, o infine anche
direttamente “divinità, dio, dea”. A me pare che, in questo contesto, Virgilio
metta in evidenza come in un piccolo particolare (la frase appena iniziata e
scherzosa di Iulo) si manifesti proprio la grandezza, la maestà del piano
divino in cui Enea sa di essere immerso. Propenderei dunque per una traduzione
che intenda numen non in senso personale (divinità), come suggerisce la
parola italiana “nume”, bensì come “maestà” divina che si rende presente nel
dettaglio di un attimo.
Ritorniamo
ora a considerare l’espressione pressit: essa ha come oggetto primam
(vocem), che ovviamente rimane oggetto anche di eripuit. Non mi
convince l’interpretazione, peraltro autorevole, seguita da Canali: anche il
Castiglioni Mariotti, alla voce premo, riporta: “vocem premere,
trattener la voce, tacere (ma: imprimersi una frase nel cuore, VERG. Aen. 7,
119)”. A me pare evidente che si tratta di un’espressione in endiadi: (primam
vocem) eripuit… ac… pressit. I termini sono volutamente violenti:
Enea “strappa di bocca” a Iulo la frase e poi la “travolge”, la “zittisce” (e
questo, ma in senso transitivo, significa frenare la voce, in questo caso del
figlio). Tra l’altro, questa risulta essere la spiegazione (che espliciterei
con un connettivo come “infatti”) di come mai Iulo non riesce a dire altro (nec
plura): la frase del figlio, che ha risonanze “profetiche” per Enea che la
ascolta, rimane “nel suo primo inizio” (prima), non riesce a proseguire
perché travolta dall’esultanza paterna.
Propongo,
sulla base di queste considerazioni, la seguente traduzione:
“Ehi,
ci mangiamo anche le mense!" disse Iulo, scherzando, e non poté
dire nulla più: infatti, questa frase ascoltata nel suo
primo inizio (audita… prima) portò la fine degli affanni, e nel
suo primo inizio il padre la colse dalle labbra del figlio e,
stupefatto dalla maestà divina, la travolse (pressit): "Salve,
- disse - terra a me dovuta dai fati, salve, voi fedeli Penati di Troia: qui la
casa, qui la patria..."
Così,
forse si riesce a rendere, nella traduzione italiana, la vera e propria
“esplosione” di gioia di Enea, dovuta al fatto che – attraverso circostanze
apparentemente banali, in questo caso una battuta di Iulo – si accorge che gli
sta parlando la maestà divina: e questo lo rende stupefactus ed
entusiasta (lui sempre così misurato).
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