Sembra
abbastanza logico e accettato – almeno sui libri di scuola e nella comune
opinione dei parlanti, che nella nostra società sono tutti bene o male anche
scriventi – che la lingua si possa dividere in “frasi” o “periodi”, quei testi
dopo i quali segniamo un punto fermo, un punto e virgola o comunque un segno di
interruzione del discorso.
E’ pure
evidente che, all’interno dei periodi, siamo abituati a dividere il testo in parole.
Non è sempre facilissimo, ma grosso modo siamo d’accordo nell’individuare in
questo elemento primario l’unità minima da noi impiegata nella costruzione di
testi. Le parole esistono, le usiamo continuamente, per nostra fortuna gli
antenati hanno inventato un metodo di scrittura “alfabetico”, di tipo analitico
e a corrispondenza quasi perfettamente biunivoca con la lingua parlata (almeno
in italiano). Tutto ciò ci consente di oggettivare la lingua e poterla più
facilmente studiare, e ci rassicura sulla validità della “parola” come primo
ingrediente di qualunque frase. Questo passaggio meriterebbe ulteriori
osservazioni e riflessioni, perché non è affatto scontato poter godere dei
vantaggi di un sistema alfabetico. Ma per ora passiamo oltre, per entrare
nell’osservazione che apriamo oggi: quella dei “tipi di parole”.
Tradizionalmente,
le parole sono state catalogate in un certo numero di “tipi”, chiamati “le
parti del discorso” (orationis partes). E probabilmente a tutti noi
sembra scontato elencarle come abbiamo appreso fin da piccoli:
Parti variabili
1. nome
2. articolo
3. verbo
4. aggettivo
5.
pronome
Parti
invariabili
6. avverbio
7. preposizione
8. congiunzione
9. interiezione
o esclamazione
Questa parte
della grammatica pare semplice e indiscutibile. Di solito viene presentata
dicendo che in “analisi grammaticale” si tratta di dire “che tipo di parola è”
quella analizzata, e osserviamo subito che il rischio è di immaginare l’insieme
della lingua come un meccanismo perfettamente logico e schematico, dunque
chiuso e inflessibile. Ogni parola è di un tipo e di un solo tipo, e va esaminata
a sé.
Basta però
gettare un’occhiata a un dizionario italiano per accorgersi che non poche
parole sono catalogate in modo molteplice proprio dal punto di vista delle
parti del discorso.
Prendiamo ad esempio
la parola “vicino”: di che tipo è? Dipende dal testo in cui la troviamo.
Vediamone alcuni possibili:
-
Giovanni, il mio vicino di casa, è rientrato dalle
vacanze. “Il vicino” è chiaramente un nome, come ricavo dalla
presenza dell’articolo e dal fatto che indico una persona che ha una certa
caratteristica ben definita (il significato è preciso: “colui che abita in una
casa vicina alla mia”).
-
Il bar più vicino si chiama “da Gigi”. “Il più
vicino”, al grado superlativo relativo, non può che essere un aggettivo
qualificativo…
-
Mi rivolgo ai vicini e ai lontani. “I vicini” è
forse da intendere come un pronome? Significa infatti “coloro che sono
vicini (resta da chiarire a chi o a quale posizione o atteggiamento)” e non ha
il senso del nome trovato nel primo esempio (“colui che mi abita vicino”).
-
Tu abiti lontano o vicino? Qui si risponde
direttamente a una domanda “dove?”: ci troviamo in presenza di un avverbio.
-
Vicino a casa tua (se sono siciliano dirò: Vicino
casa tua…) c’è un parco molto verde. Un alunno diligente direbbe che
qui dobbiamo considerare “vicino a” come una locuzione preposizionale o
prepositiva; insomma, un gruppetto di parole che equivale a una preposizione,
cioè introduce un complemento (o un sintagma, se vogliamo usare un’altra
terminologia).
Già da un
esempio così semplice ci rendiamo conto che:
-
una stessa parola può essere impiegata come una “parte”
diversa di volta in volta;
-
non sempre rispettiamo uno dei principi che sembrano basilari
in “analisi grammaticale”: quello di esaminare le parole ad una ad una.
Nell’ultimo esempio, ci siamo sentiti costretti a prendere in esame “vicino a”;
-
è molto più difficile catalogare il tipo di parola che usarla
(per fortuna!);
-
i diversi impieghi della stessa parola “vicino” sono fondati
su un significato che rimane comune, e che ha consentito questo “slittamento
spontaneo” da un uso all’altro.
Un secondo
esempio su cui possiamo riflettere è quello della parola “senza”. I dizionari
la catalogano come congiunzione. E portano adeguati esempi:
-
Mi incontrò senza salutarmi. Introduce una frase,
dunque è una congiunzione.
Già. Ma se
penso all’antitesi spesso impiegata “con o senza?” (lessicalmente ancor più
evidente in inglese: “with or without?”) mi accorgo di una “opposizione
perfetta” tra le due parole, che proprio per questo dovrebbero appartenere ad
una stessa categoria. Orbene, tutti sanno che “con” appartiene all’elenco delle
preposizioni semplici (di-a-da-in-con-su-per-tra/fra). E allora come la
mettiamo? Perché “senza” è… “fuori catalogo”?
Ci fermiamo a
questi primi esempi, per non appesantire troppo questa prima riflessione. Alcune
domande s’impongono: che cosa significa che una stessa parola possa “essere”
cinque parti diverse del discorso? Quali sono i criteri definitori chiari
per catalogare le varie parti? E siamo sicuri che queste nove parti
comprendano tutte le parole e tutti gli usi delle parole? Più a fondo ancora: che
cosa sono le suddette parti del discorso? Ovvero, che operazione mentale
sto facendo quando catalogo o faccio catalogare dagli alunni le parole in “parti
del discorso”?
Se ci sembrasse
di cominciare a notare un po’ di nebulosità, proprio nell’analisi grammaticale,
che sembra la più “chiara e distinta”, non occorre stracciarsi le vesti:
definire bene i criteri di ricerca ci potrà servire per accorgerci che il mondo
delle nostre parole è più ricco e variegato di quanto ci siamo finora accorti.
Il che lo rende ancor più entusiasmante da esplorare e ci dischiude promettenti
orizzonti di avventura…
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