Il Pensierino n. 3 si era
concluso con le seguenti domande:
-
che cosa
significa che una stessa parola possa “essere” cinque parti diverse del
discorso?
-
Quali sono i criteri
definitori chiari per catalogare le varie parti? (…)
-
Più a fondo
ancora: che cosa sono le suddette parti del discorso? Ovvero, che
operazione mentale sto facendo quando catalogo o faccio catalogare dagli alunni
le parole in “parti del discorso”?
Non pretendo ovviamente di
rispondere in modo esauriente a questa serie di domande, che pare abbastanza
innocua ma richiede probabilmente approfondimenti lunghi e “filosofici”. Posso
dire che un esame di alcune grammatiche recenti[1] mi ha fatto
capire che non è facile – come succede in ogni scienza – proprio dare
definizioni chiare di base. Qualcuno vi rinuncia a priori (sembra incredibile,
ma le più di 300 pagine dedicate da Renzi al verbo non definiscono mai
che cosa esso sia!).
Mi limiterò, in questa sede,
a riflettere un po’ su certi dati storici, per poi cercare di arrivare a qualche
conclusione almeno provvisoria.
Proviamo a tornare alle
origini: a volte questo aiuta a chiarire i processi mentali che hanno portato
alle categorie attuali. Nell’antichità, il primo greco, Dionisio Trace (II
a.C.) che catalogò le “parti del discorso” di una lingua simile alla nostra, il
greco appunto, le vedeva in modo un po’ diverso: elencava 8 parti in
quest’ordine: nome, verbo, participio, articolo, pronome, preposizione,
avverbio, congiunzione. Le prime cinque variabili, le ultime tre invariabili.
Come si noterà (cfr. lo
schema “attuale” riportano nel Pensierino 3), a parte la mancanza
dell’interiezione o esclamazione, c’è un clamoroso assente, l’aggettivo, mentre
c’è “in più” il participio.
Si evidenzia che una
grande bipartizione iniziale è quella NOME – VERBO, con il “PARTICIPIO” che come
dice il nome partecipa del nome e del verbo, è un qualcosa di “comune” tra
questi due insiemi. Ci si accorge, proseguendo nello studio storico, che all’interno
della categoria NOME i latini erano arrivati a distinguere il nomen
substantivum, che significa una “sostanza”, un qualcosa di esistente in sé
– quello che noi diremmo una “cosa”, una “realtà” – dal nomen adiectivum
che si “aggiunge” al primo, precisandone una qualità o una circostanza. Forse,
come me fino a poco fa, non tutti sanno che tale catalogazione comune di
sostantivo e aggettivo nelle grammatiche è stata mantenuta sino a dopo l’Unità
d’Italia: tanto che solo a partire dal Fornaciari (prima edizione 1879-1881)
l’aggettivo venne considerato dotato di statuto autonomo!
Non ritengo che dobbiamo
considerare del tutto “ciechi” gli antichi. Come la mettiamo? Che cosa vedevano
o che cosa noi rischiamo di non vedere più? A mio avviso, si tratta di notare
che la funzione del nome è di fatto in parte condivisa da nomi, aggettivi
e pronomi. Il Serianni[2] se ne
accorge, eccome, tanto da dedicare una sezione del capitolo quinto al confronto
tra le due parti che stiamo considerando: L’aggettivo e il nome. (“La
grande affinità di forme e di impieghi esistente tra aggettivo e nome fa sì che
le due categorie spesso assumano l’una le funzioni dell’altra.” La sezione
comprende ben 13 punti, da V.43 a V.55, con una ricca esemplificazione).
E più semplicemente: i
colori e i numeri, non svolgono forse in modo equivalente le funzioni di nomi o
di aggettivi? Proprio perché indicano una “qualità” o una “quantità”
(Aristotele avrebbe detto un accidente), queste parole vengono usate sia da
sole (substantivum), sia in compagnia di altri nomi (adiectivum).
Es: Il verde del prato
si stagliava sull’azzurro del cielo. Il prato verde si stagliava sul cielo
azzurro.
Due più due fa quattro.
Due euro più due euro fa quattro euro.
Quanto ai pronomi: i pronomi
personali che cosa sono se non “nomi personali relativi a chi parla”? Mi è
recentemente capitato di sentire analizzare un pronome personale come “nome” da
un alunno di V elementare: e pensavo che non è del tutto sbagliato!
Potremmo riflettere ancora
più a fondo – come fa Serianni in V.7-8 e osservare che la distinzione nome –
verbo, che sembra così netta nelle lingue indoeuropee e in particolare in greco
e in italiano, NON lo è in tutte le lingue: “Non potremmo fare lo stesso con le
lingue sino-tibetane o con molti idiomi amerindiani,…”. Possiamo anche aggiungere
che in lingue meno flessive, come l’inglese, molte parole possono essere usate sia
come nomi, sia come verbi!!! (the stop – to stop; the light – to light
eccetera).
Ma allora tutto è confuso?
No, questa sarebbe una conclusione errata, dato che nella pratica non ci è affatto
difficile distinguere nomi, aggettivi, pronomi, verbi… neppure in inglese, dove
più spesso che in italiano la parola è la stessa, impiegata in funzioni
diverse.
Allora, per provare a
tirare qualche somma dalle considerazioni svolte qui e nel precedente
Pensierino, senza arrischiarci ancora a coniare definizioni:
-
le “parti del
discorso” vanno intese forse come funzioni prevalenti di una certa
parola (in astratto, p.es. nel vocabolario), e comunque, come la funzione
svolta in quella determinata frase. Questo chiarimento è fondamentale e
apre lo studente a considerare la lingua in modo molto più attivo. In questa
frase che ho sotto gli occhi devo veramente andare a cercare quale funzione
svolgono le parole… ed è una caccia al tesoro appassionante! Posso trovare in
funzione di nome parole che hanno funzione prevalente di aggettivi (Il bello
è proprio questo), o di avverbi (Oggi è una bella giornata),
o di verbi (Correre mi piace tanto);
-
non ci
meravigliamo più che molte parole abbiano varie funzioni (cfr. la parola
“vicino”, che – con lo stesso contenuto semantico – può svolgere cinque
funzioni diverse); anzi, un segno della “intelligenza” dei parlanti è proprio
questo “piegare” la lingua alle esigenze che si presentano di volta in volta,
“spostando” le parole da una funzione all’altra;
-
in particolare,
nel verbo noteremo che non solo il participio (come già vedevano gli antichi) è
predisposto a svolgere una funzione nominale, ma che anche l’infinito è come il
“nome del verbo” (mi si scusi il pasticcio). ‘Correre’ è la parola con cui “nomino”
quell’azione;
-
possiamo anche
notare che tutte le parole sono almeno usate come nome “di se stesse”,
proprio quando parlo di grammatica. E allora non dirò più che “tutte le
categorie grammaticali possono fungere da soggetto di una proposizione”, con
esemplificazioni del tipo:
o
il è un articolo determinativo;
o
domani è un avverbio di tempo.
Mi accorgerò invece che in
questi due casi il e domani sono nomi: sono “la parola con
cui nomino” rispettivamente l’articolo determinativo e un avverbio. E potrò
forse concludere che un soggetto è sempre un sintagma nominale.
[1] Serianni, Grammatica italiana, DeAgostini
ed. 2006; Renzi-Salvi-Cardinaletti, Grande grammatica italiana di
consultazione, Il Mulino ed. 2001; Dardano-Trifone, La nuova grammatica
della lingua italiana, Zanichelli 1997; Fornara, Grammatiche e storia
della grammatica. Analisi di testi esemplari – Schemi e tabelle, appunti
del corso di Grammatica B, a.a. 2005/2006.
[2] Op.cit.
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