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Nato nel 1960 a Pavia, vivo a Roma. Docente di Lettere nei licei, poi pure di Religione cattolica, quando ho vinto una cattedra nella scuola statale ho preferito rinunciare, per proseguire e arricchire l’esperienza di far crescere un nuovo modello scolastico, sostenuto dalle famiglie degli alunni e incentrato sull’impegno educativo comune famiglia – scuola. Con i colleghi, ho riscoperto l’importanza di leggere in classe e di aiutare gli alunni a prendere contatto diretto con i testi classici, che – come Calvino ha insegnato – “ci leggono”: vedi alle voci Virgilio, Dante, Tolkien,... Da una ventina di anni accompagno le prime medie nell’avventura di leggere integralmente l’Eneide; e mi sono appassionato a scovarvi trame narrative robuste e delicate, da riscoprire e rivalutare. Amo il contatto con la natura, le attività agricole e l’apicoltura. Vivendo a Roma da più di trent’anni, mi sono accorto che l’epigrafia può essere un incentivo per gli alunni ad interessarsi al latino, al greco… semplicemente imparando a guardarsi intorno con curiosità. Così sono nati i laboratori epigrafici che hanno il semplice pregio di aver divertito docenti e discenti.

mercoledì 16 novembre 2011

Pensierino 3) QUALI PARTI DEL DISCORSO?


Sembra abbastanza logico e accettato – almeno sui libri di scuola e nella comune opinione dei parlanti, che nella nostra società sono tutti bene o male anche scriventi – che la lingua si possa dividere in “frasi” o “periodi”, quei testi dopo i quali segniamo un punto fermo, un punto e virgola o comunque un segno di interruzione del discorso.
E’ pure evidente che, all’interno dei periodi, siamo abituati a dividere il testo in parole. Non è sempre facilissimo, ma grosso modo siamo d’accordo nell’individuare in questo elemento primario l’unità minima da noi impiegata nella costruzione di testi. Le parole esistono, le usiamo continuamente, per nostra fortuna gli antenati hanno inventato un metodo di scrittura “alfabetico”, di tipo analitico e a corrispondenza quasi perfettamente biunivoca con la lingua parlata (almeno in italiano). Tutto ciò ci consente di oggettivare la lingua e poterla più facilmente studiare, e ci rassicura sulla validità della “parola” come primo ingrediente di qualunque frase. Questo passaggio meriterebbe ulteriori osservazioni e riflessioni, perché non è affatto scontato poter godere dei vantaggi di un sistema alfabetico. Ma per ora passiamo oltre, per entrare nell’osservazione che apriamo oggi: quella dei “tipi di parole”.
Tradizionalmente, le parole sono state catalogate in un certo numero di “tipi”, chiamati “le parti del discorso” (orationis partes). E probabilmente a tutti noi sembra scontato elencarle come abbiamo appreso fin da piccoli:
Parti variabili
1.      nome
2.      articolo
3.      verbo
4.      aggettivo
5.      pronome
Parti invariabili
6.      avverbio
7.      preposizione
8.      congiunzione
9.      interiezione o esclamazione
Questa parte della grammatica pare semplice e indiscutibile. Di solito viene presentata dicendo che in “analisi grammaticale” si tratta di dire “che tipo di parola è” quella analizzata, e osserviamo subito che il rischio è di immaginare l’insieme della lingua come un meccanismo perfettamente logico e schematico, dunque chiuso e inflessibile. Ogni parola è di un tipo e di un solo tipo, e va esaminata a sé.
Basta però gettare un’occhiata a un dizionario italiano per accorgersi che non poche parole sono catalogate in modo molteplice proprio dal punto di vista delle parti del discorso.
Prendiamo ad esempio la parola “vicino”: di che tipo è? Dipende dal testo in cui la troviamo. Vediamone alcuni possibili:
-                    Giovanni, il mio vicino di casa, è rientrato dalle vacanze. “Il vicino” è chiaramente un nome, come ricavo dalla presenza dell’articolo e dal fatto che indico una persona che ha una certa caratteristica ben definita (il significato è preciso: “colui che abita in una casa vicina alla mia”).
-                    Il bar più vicino si chiama “da Gigi”. “Il più vicino”, al grado superlativo relativo, non può che essere un aggettivo qualificativo
-                    Mi rivolgo ai vicini e ai lontani. “I vicini” è forse da intendere come un pronome? Significa infatti “coloro che sono vicini (resta da chiarire a chi o a quale posizione o atteggiamento)” e non ha il senso del nome trovato nel primo esempio (“colui che mi abita vicino”).
-                    Tu abiti lontano o vicino? Qui si risponde direttamente a una domanda “dove?”: ci troviamo in presenza di un avverbio.
-                    Vicino a casa tua (se sono siciliano dirò: Vicino casa tua…) c’è un parco molto verde. Un alunno diligente direbbe che qui dobbiamo considerare “vicino a” come una locuzione preposizionale o prepositiva; insomma, un gruppetto di parole che equivale a una preposizione, cioè introduce un complemento (o un sintagma, se vogliamo usare un’altra terminologia).
Già da un esempio così semplice ci rendiamo conto che:
-         una stessa parola può essere impiegata come una “parte” diversa di volta in volta;
-         non sempre rispettiamo uno dei principi che sembrano basilari in “analisi grammaticale”: quello di esaminare le parole ad una ad una. Nell’ultimo esempio, ci siamo sentiti costretti a prendere in esame “vicino a”;
-         è molto più difficile catalogare il tipo di parola che usarla (per fortuna!);
-         i diversi impieghi della stessa parola “vicino” sono fondati su un significato che rimane comune, e che ha consentito questo “slittamento spontaneo” da un uso all’altro.
Un secondo esempio su cui possiamo riflettere è quello della parola “senza”. I dizionari la catalogano come congiunzione. E portano adeguati esempi:
-         Mi incontrò senza salutarmi. Introduce una frase, dunque è una congiunzione.
Già. Ma se penso all’antitesi spesso impiegata “con o senza?” (lessicalmente ancor più evidente in inglese: “with or without?”) mi accorgo di una “opposizione perfetta” tra le due parole, che proprio per questo dovrebbero appartenere ad una stessa categoria. Orbene, tutti sanno che “con” appartiene all’elenco delle preposizioni semplici (di-a-da-in-con-su-per-tra/fra). E allora come la mettiamo? Perché “senza” è… “fuori catalogo”?
Ci fermiamo a questi primi esempi, per non appesantire troppo questa prima riflessione. Alcune domande s’impongono: che cosa significa che una stessa parola possa “essere” cinque parti diverse del discorso? Quali sono i criteri definitori chiari per catalogare le varie parti? E siamo sicuri che queste nove parti comprendano tutte le parole e tutti gli usi delle parole? Più a fondo ancora: che cosa sono le suddette parti del discorso? Ovvero, che operazione mentale sto facendo quando catalogo o faccio catalogare dagli alunni le parole in “parti del discorso”?
Se ci sembrasse di cominciare a notare un po’ di nebulosità, proprio nell’analisi grammaticale, che sembra la più “chiara e distinta”, non occorre stracciarsi le vesti: definire bene i criteri di ricerca ci potrà servire per accorgerci che il mondo delle nostre parole è più ricco e variegato di quanto ci siamo finora accorti. Il che lo rende ancor più entusiasmante da esplorare e ci dischiude promettenti orizzonti di avventura…

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